Abitare il proprio mondo. Lo spazio non basta.

Potrei viver confinato in un guscio di noce, e tuttavia ritenermi signore d’uno spazio sconfinato (Amleto, W. Shakespeare)

Se abitato, un qualsiasi spazio fisico diviene un “luogo”. Un luogo non è semplicemente uno spazio.

Uno spazio può essere descritto a partire dalle sue caratteristiche oggettive, dalla sua geometria, dalle dimensioni, dalle cose che contiene.

Ma descrivere un luogo si rivela ben presto un tentativo sterile, un luogo va soprattutto ascoltato.

I luoghi parlano: promettono, vietano, impongono, suggeriscono, dicono sì e dicono no, seducono, respingono.

I luoghi ascoltano: accolgono ciò che viene fatto loro, si lasciano plasmare, modificare.

I luoghi imparano: hanno una storia, una memoria, accumulano ricordi.

I luoghi interpretano: orientano il senso che vi si trova, suggerendo ciò che è stato e che potrà essere.

Il luogo come ambiente, contesto, campo, situazione, sempre testimonia una storia e anima un desiderio.

L’esperienza dell’abitare un luogo non dipende dalla quantità e dalla varietà di stimoli percettivi. La nozione stessa di ambiente è molto problematica, non può essere ricondotta semplicemente ai parametri spaziali e sensoriali. La realtà con cui si rapporta l’essere umano non è semplicemente percettiva, poiché già la percezione è condizionata da risonanze, echi, significati che ogni persona porta con sé. Parliamo del mondo degli affetti, del desiderio, dell’immaginario, dell’inconscio. La realtà che ognuno percepisce prende forma a partire da queste dimensioni.

Ecco allora che non dobbiamo sorprenderci di incontrare qualcuno che si sente prigioniero nella vasta Danimarca, pur essendone il principe, mentre rinchiuso in un guscio di noce si riterrebbe signore d’uno spazio infinito. Un luogo non è oggettivamente grande o piccolo.

Così come non esiste la spiaggia o una foresta come luogo oggettivo: esiste la spiaggia in quanto ambiente di vita del pescatore, la spiaggia del bagnante, la spiaggia del bagnino, la spiaggia di Circe, del migrante, del naufrago, la spiaggia della tartaruga che vi depone le uova. Così come esiste la foresta del cacciatore, la foresta della guardia forestale, la foresta del botanico, del viandante, del legnaiulo, la foresta di Cappuccetto rosso o di Hänsel e Gretel, la foresta di un nativo Guaranì, la foresta rifugio di un fuggiasco.

Ogni ambiente è un mondo per la forma di vita che gli corrisponde, un Umwelt caratterizzato da una serie di elementi che fondano questa relazione: dei marker che “parlano” solo ad alcuni viventi e legano in modo del tutto particolare quel vivente a quell’ambiente. È ovvio come il naufrago e il bagnante siano legati alla spiaggia da cose diverse.

Jakob von Uexküll, tra i massimi zoologi del ‘900 e fondatore dell’ecologia, condivide con i suoi contemporanei artisti dell’avanguardia (futuristi, dadaisti, surrealisti, cubisti), l’abbandono dello sguardo umanistico e antropocentrico. È interessato a esplorare le forme della vita non riducibili all’umano e lì dove la scienza naturale vede un unico mondo che contiene tutte le specie viventi secondo un ordine evolutivo, dalle più elementari alle più complesse degli organismi superiori, Uexküll vede, invece, una infinità di sistemi percettivi, una varietà di mondi possibili tutti egualmente compiuti e funzionali. Nessun sistema gerarchico, evolutivo, nessun macrosistema o classe generale in grado di render conto di tutto. È affascinato dalle singole forme di vita, le sue ricostruzioni dell’ambiente del riccio di mare, dell’ameba, della medusa, del verme di mare, dell’ape, della mosca, della zecca sono descritte come passeggiate in mondi inconoscibili, misteriosi, affascinanti.

Troppo spesso noi immaginiamo che le relazioni di uno di questi animaletti con il proprio ambiente abbiano luogo nello stesso spazio e nello stesso tempo del mondo che noi abitiamo. Crediamo che ci sia Il Mondo in cui si situano le diverse forme di vita. Ma un tale mondo unitario non esiste, non esiste uno spazio e un tempo uguali per tutti gli esseri viventi. La mosca che ci ronza intorno non condivide lo stesso mondo, la stessa nostra stanza in questo momento.

È impossibile descrivere anche un piccolo elemento dell’ambiente in modo univoco e semplicistico. Anche nel dettaglio non possiamo prescindere dal riferimento a ciò che lega un determinato vivente a quell’ambiente. Non ci possono essere un significato, una funzione, una descrizione di un dettaglio, che siano validi in generale. Ad esempio, il gambo di un fiore diventa un marker di un mondo diverso a seconda che lo si consideri come facente parte dell’ambiente di una bambina che raccoglie fiori per regalarli alla sua mamma, o di un giovane che li raccoglie per portarli sulla tomba della sua amata, o di una formica che se ne serve come strada per raggiungere il nettare nel calice del fiore, o di una mucca che ne fa il suo nutrimento, o di una zecca che lo usa come trampolino per lasciarsi cadere sul manto di un animale. Ogni ambiente risulta coerente in base ai marker che legano una forma di vita a quello specifico mondo, formando una unità funzionale con gli organi ricettori dell’animale deputati a percepire quel marker e a reagire ad esso. In un ambiente ci sono tantissimi elementi e ognuno può essere il supporto esterno di un ricettore del corpo di uno dei tantissimi animali che vi abitano.

In altre parole: nessun animale può entrare in relazione con un oggetto come tale, con l’ambiente nella sua totalità ed astrazione, ma solo coi propri attivatori-marker. Ognuno vi entrerà in relazione attraverso i propri attivatori interni. Ogni soggetto è definito dai suoi marker del tutto singolari. Nell’animale i marker sono dati dalla natura, sono le risposte istintive o comunque i comportamenti orientati dal programma genetico. Negli umani i marker sono frutto della storia personale, delle esperienze fatte, degli incontri che hanno segnato, delle parole che hanno ferito, degli sguardi che hanno fissato, delle voci che hanno risuonato. Il risultato è un “animale” che si lega ai luoghi in modo del tutto singolare.

Il luogo è una cosa vivente che invita a ricordare, a scegliere, a immaginare, a trascendere lo spazio geometrico e a percorrere i suoi spazi interiori.

Immergersi nello spazio interiore vuol dire entrare in un altro luogo, in un’altra scena da quella che si può descrivere oggettivamente. Questa reversione dallo spazio-esterno allo spazio-interno, permette di abitare un luogo come spazio intimo, personale, fatto di cunicoli, passaggi stretti, aperture improvvise, porte chiuse, paesaggi. Uno spazio elastico, topologico, con zone estremamente molli e sensibili, altre rocciose e impenetrabili.

Agli estremi possiamo trovare l’attrazione per luoghi come gusci di noci, claustrofilia, o l’orrore per spazi sconfinati, agorafobia.

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