I semi della pedagogia nera

I semi della pedagogia nera germogliano ovunque

Un giorno il fascismo sarà curato con la Psicanalisi

(E. Flaiano)

L’educazione più aberrante non ha mai avuto altro motivo che il bene del soggetto

(J. Lacan)

Si ripropone qui la formula pedagogia nera non solo per mostrare come le radici dei sistemi educativi autoritari affondano nella cultura illuminista, romantica, positivista, ma anche farne vedere i frutti nelle nostre prassi contemporanee. Insomma, la pedagogia nera ci aiuta a cogliere l’aporia che sta al cuore di ogni discorso educativo. Si indicano quei semi che nella nostra società possono portare a nuove forme di aberrazione educativa e formativa. Semi spesso invisibili, forme di autorità nascoste che possono produrre effetti devastanti in una scuola che sembra diventata serva di due padroni: del sapere tecno-scientifico e dell’economia neo-liberista. Sul piano organizzativo si è adeguata alle logiche della crescente privatizzazione e aziendalizzazione. Sul piano dei saperi la tecnica burocratica e l’iper-specializzazione dettano l’agenda educativa: semplificazione, parcellizzazione, standardizzazione, valutazione, meritocrazia. Nella società stiamo assistendo a una vera e propria mutazione antropologica che si evidenzia da una parte nelle pratiche di biopolitica e igienismo e dall’altra nella veloce mutazione della lingua (digitalizzata, semplificata, omologata, prescrittiva, concreta). L’ultima parte raccoglie alcune idee psicoanalitiche per ripensare la funzione pedagogica oggi.

Premessa

Perché riprendere la formula pedagogia nera[1] della studiosa tedesca Katharina Rutschky, che così intitola il suo studio del 1977 sulle fonti storiche dell’educazione autoritaria nella Germania del III Reich? È anacronistico oggi, per noi europei, parlare di educazione autoritaria, di metodi pedagogici violenti e costrittivi. Anzi, da più parti si lamenta il tramonto dell’autorità degli insegnanti e dei genitori. E poi oggi c’è una attenzione speciale all’infanzia, ai suoi diritti. C’è una cultura dell’educazione, c’è una sensibilità illuminata dai saperi scientifici, siamo una democrazia moderna. La nostra modernità ha gli anticorpi per debellare il ripresentarsi dei regimi totalitari in cui la PN è fiorita. Ebbene, sta proprio qui l’interesse per lo studio della Rutschky.

Provo a mettere a fuoco i motivi dell’attualità di tale formula in quattro punti:

  • Tra fine ‘700 e inizio ‘900, una cultura illuminata, animata dalle migliori intenzioni verso l’infanzia, e le moderne discipline scientifiche si diedero molto da fare per creare teorie e metodi educativi. I più noti filosofi, pedagoghi, psichiatri dell’epoca diedero il loro contributo. Eppure, proprio questa cultura è stato il terreno perfetto, l’humus in cui i semi della PN hanno preso vita, hanno attecchito e messo radici.
  • I regimi totalitari sono solo una congiuntura in cui quei semi hanno potuto svilupparsi e germogliare. Ma la violenza, la costrizione, la mortificazione della soggettività può prendere molte forme. Un terreno ricco di elementi nutritivi può far crescere semi di PN che fioriranno in forme diverse e con tempi di sviluppo diversi. Così come i primi pedagoghi illuministi non pensavano di porre le basi per l’educazione autoritaria che cento anni dopo sarebbe diventata sistema; oggi ci sono saperi, idee, prassi che tra qualche decennio prenderanno la forma di una nuova #PN 2.0, del tutto diversa da quella dei regimi nazifascisti.
  • Così come nei pedagoghi illuministi la violenza, l’imposizione non era l’intenzione che guidava i loro passi e non era lo scopo ma, al limite, solo un mezzo necessario; così nei totalitarismi l’educazione totalitaria aveva come scopo il bene dell’individuo, della famiglia, del popolo, della nazione. All’orizzonte c’era l’etica del bene comune, non la volontà pedagogica di fare del male. La scienza, la burocrazia, la propaganda di idee, una nuova lingua, l’identità di massa, hanno fatto sì che i bambini e i giovani non avvertissero l’imposizione, le punizioni, l’autorità, l’irrigimentazione, come violenza ma, anzi, l’hanno abbracciata entusiasticamente. Le pene, le costrizioni, l’obbedienza, la gerarchia erano percepite come il mezzo per raggiungere lo scopo: uno stato che promette di accogliere e governare la totalità della vita: la totalità può dare la felicità. Ci sono diversi modi in cui il potere aspira allo stato totalitario. L’universale, il globale, l’uniformità sono da sempre le parole chiave di tale aspirazione. Negli anni ’20-’30 e forse oggi, l’educazione è il luogo in cui si persegue quella totalità.
  • C’è anche un godimento del male.[2] Quei famigerati teorici illuministi della pedagogia nera non erano solo “teorici” animati da buone intenzioni etiche, erano anche soggetti che traevano dal potere di plasmare, di piegare, di addestrare e addomesticare un segreto ed oscuro godimento.[3] Così come, per Freud, nel sintomo si annida una segreta soddisfazione, anche in ogni azione e in ogni desiderio che la sostiene possiamo ritrovare una segreta soddisfazione: la violenza non è semplicemente un errore etico o un’aberrazione patologica, è un modo di godere. Alla banalità del male va aggiunto il godimento del male, sia pure banale, sia pure ordinario: il godimento del male quotidiano.
  1. Le radici della pedagogia nera

Partiamo dunque dalle radici della PN portate in luce dalla Rutschky che nel suo studio raccoglie i testi e i materiali di filosofi e pedagoghi che vanno dal periodo dei Lumi e giungono alle idee nazi-fasciste. Mostra come per i pedagoghi di tutto l’800, educare, istruire, formare il piccolo umano corrisponde a ottenere obbedienza, rendere docile la volontà ad ogni comando, ad ogni prescrizione e insegnamento.

Punizioni corporali. Per fare ciò bisogna piegare la vitalità, l’irruenza, l’iperattività, la volontà, il capriccio, la cattiveria, l’ostinazione, la testardaggine, la distrazione, la libertà, la tendenza al disordine, con qualunque mezzo: punizioni corporali,[4]  umiliazioni, subdole seduzioni, condizionamenti tipo bastone/carota, correzioni, regole e divieti, disciplina, addestramenti fisici e mentali atti a instaurare automatismi, imitazioni e identificazioni forzate, a instillare rigide convinzioni morali e a inibire desideri ed emozioni smodate.

Non si può ammettere che il bambino desideri, gioisca, e abbia emozioni indipendentemente dalla volontà dell’adulto onnipotente (651).

Intimorire e umiliare. Le percosse sono solo una delle forme di educazione dei bambini. Accanto alle punizioni corporali, esiste tutta una gamma di sofisticati provvedimenti tesi al “bene del bambino”. Oltre alle punizioni fisiche, diverse tecniche per punire vengono enumerate: «Tra queste occupa una posizione davvero preminente e degna la punizione silenziosa o il tacito rimprovero che si esprime con lo sguardo o con un gesto appropriato.  […] Un unico sguardo avrà maggiore efficacia della verga e della frusta in quei bambini che sappiano cogliere le sollecitazioni più discrete. […] Un mezzo movimento della mano, uno scuotimento del capo o una scrollata di spalle possono risultare assai più efficaci di tante parole. Oltre ai rimproveri taciti possiamo servirci di rimproveri verbali. Anche qui, non sempre conviene ricorrere a grandi e solenni discorsi» (638-9). L’umiliazione e il biasimo è un fondamento del metodo educativo.

Reprimere le pulsioni. È fondamentale sottomettere la volontà e indurre l’obbedienza, affinché in ogni bambino si eriga «un bastione difensivo nei confronti degli stimoli provenienti dagli oggetti sensibili esterni e nei confronti dei corrispondenti impulsi sensibili interni» (389). Cosa sono questi pericolosi impulsi interni da cui difendersi? Si vede bene come in realtà l’educazione è concepita come difesa dalle pulsioni. Dall’alto delle mura l’educatore potrà vigilare, scorgere l’affacciarsi dell’impulso nemico e impedirgli di avvicinarsi. Tocca spiare, ispezionare, prevenire e impedire che gli si aprano le porte: ogni piacere è tabù, la masturbazione e persino toccarsi è tabù (si arriva perfino a prescrivere l’infibulazione), l’onanismo viene visto causa della decadenza della società; la vista della nudità, anche la propria, è vietata e per spiegare il corpo umano si consigliano metodi che non eccitino l’immaginazione, ad esempio servirsi di un corpo umano inanimato: «lo spettacolo di un cadavere ispira gravità e induce riflessione. […] Se tutti i fanciulli potessero essere istruiti sulla riproduzione umana da una lezione di anatomia, se lo spunto per iniziare tale discorso fosse fornito dalla vista di un cadavere, tanti problemi sarebbero risolti»  (545). Il bambino deve essere aiutato a difendersi dalle proprie pulsioni, ma, implicitamente, è l’educatore che si difende dalle proprie. C’è una vera e propria fobia della sessualità.

La sessualità dei bambini (come quella delle donne) è percepita come minaccia, disordine. La convinzione pedagogica che si debba sin dal principio “condurre” il bambino in una certa direzione corrisponde evidentemente al bisogno di pacificare l’angoscia legata alla precarietà, al caos, allo smarrimento che certi periodi, più di altri, fanno emergere. Ci sono periodi, come quello degli anni ’20 in Europa, in cui la paura del caos fa sì che si invochino certezze, poteri forti, disciplina. La plasticità, flessibilità, inermità e disponibilità del bambino lo rendono l’oggetto ideale di una tale compensazione. Ecco l’urgenza di guidare, istruire, addestrare, ricondurre all’ordine, alla stabilità.

Frenare l’irruenza. Mettere ordine agli impulsi selvaggi, sfrenati, mal-educati dei bambini vuol dire preservare l’ordine sociale. Compito dell’educatore è mettere i freni alla volontà infantile, ai suoi moti irrazionali, al “ribollire soggettivo del suo universo mentale e all’eccitazione del momento” (364).

In un manuale del 1857: “L’irruenza con la sua mancanza di riguardi, la rudezza, la trascuratezza, il volere irrazionale, in breve: tutto ciò che turba l’ordinamento sociale, deve essere represso nei bambini. Se non si riesce a sconfiggerlo, con le buone, se la sua forza non può essere piegata, deve essere spezzata. Grazie a una violenza che tiene i bambini entro i limiti loro assegnati e li abitua alle debite restrizioni, i loro animi selvaggi devono essere domati” (366).

L’irruenza è associata al movimento, alla iperattività, all’impulsività, all’eccitazione, all’indocilità, al fuori-controllo, al disordine. Tutto ciò che l’educatore vuole evitare. Per sedare la volontà, l’irruenza, l’educatore può fare anche appello alla varietà di interessi che non lasciano spazio e tempo all’emersione e allo sviluppo di un desiderio personale duraturo ed esclusivo: “la varietà lo tiene occupato e colma il suo animo” (585).

Temprare il corpo. L’amore affettuoso può viziare i bambini che devono invece temprare il loro corpo, diventare resistenti alle intemperie, accordarsi alla natura, alla vita spartana. La sofferenza come educazione naturale. Non devono essere lasciati troppo alle cure e premure materne: il loro «amore cieco è una vera cancrena nell’educazione» (271). Nessuna mano pietosa: le punizioni sono naturali. Nessun moto spontaneo, pulsione o desiderio deve manifestarsi nel bambino, perciò il corpo deve essere concepito in maniera meccanica. Gli esercizi ginnici, ogni forma di addestramento corporeo è tesa ad aggiustare, ad automatizzare, a rendere funzionale, a perfezionare il corpo-macchina. Si vedano i dispositivi inventati da Schreber: attrezzi, cinghie, caschi, tiranti, busti, protesi… per raddrizzare la postura, correggere il movimento. Marionette nelle mani del pedagogo.

Semplificare la lingua. A scuola la lingua viene militarizzata: le ingiunzioni, le domande, le risposte, devono essere precise, brevi, semplificate, consentire una sola interpretazione; la forma delle frasi deve essere omogenea e riconoscibile immediatamente; si devono prediligere frasi concrete, operative, imperative, prescrittive. I metodi di esposizione degli argomenti da parte dell’educatore, sono attenti a non sollecitare pulsioni, desideri o interpretazioni personali. Ad esempio, con il metodo letterale l’argomento viene scomposto e poi compresso in una combinazione di lettere che si deve memorizzare, con il pretesto di risparmiare tempo si elude l’interpretazione del testo, la sua polisemia. Lo si spezzetta riducendolo a micro descrizioni, etichette mnemoniche svuotate di senso. Tutto è all’insegna della scomposizione, delle liste, dell’omogeneità. Persino «la lingua usata in privato da madre e figlio deve essere distrutta e posta su un fondamento razionale» (253).

Educazione totalitaria. Il bambino, in ogni caso, è qualcosa da formare, da correggere, da curare. L’infanzia è una sorta di malattia, di malattia mentale e l’educatore ha funzione di psichiatra, di medico. In un manuale del 1890 si parla di difetti problematici bisognosi di cura pedagogica, e se ne fa l’elenco: abiezione, avarizia, crudeltà, iperattività, ingordigia, irresponsabilità, ottusità, sessualità traviata, irascibilità, sonnambulismo, ecc. Difetti che l’educatore deve cancellare. L’educatore è allo stesso tempo un padre, un medico, un sacerdote, un giudice. Il carattere totalitario della sua funzione fa sì che l’educazione sia concepita come istituzione totale. La vita extrascolastica è nemica della scuola: l’insegnamento è solo una parte, l’educazione deve occuparsi della totalità della vita, in maniera pervasiva, incessante, è necessaria una sorta di dittatura dell’educazione. È necessario un contesto in cui sia possibile costantemente sorvegliare e inibire o punire ogni attività spontanea del bambino, tutto deve essere prescritto: come camminare, correre, sedere, salutare, come parlare, come scrivere, gesticolare e addirittura come respirare. Tutto deve essere regolato e per farlo l’educatore deve essere padrone assoluto del tempo, del corpo, della mente dei bambini. Il tempo libero, la vita familiare sono nemici dell’educazione. La vita isolata in collegio è la risposta alla necessità di controllo assoluto: la scuola impara dal mondo militare a condurre la sua battaglia per la quiete, la concentrazione, la disciplina, l’obbedienza, l’annullamento del privato (niente segreti, desideri e gusti personali).

Sorvegliare e misurare. Si sviluppano strategie e dispositivi per ottimizzare la vigilanza costante: metodi e apparecchi di misurazione, la creazione di spazi ad hoc, la disposizione frontale in aula, la forma dei banchi, l’adozione di prassi quali la confessione, l’obbligo a tenere un diario, disposizioni e ordinamenti scolastici, registri, voto alla condotta…  ad esempio: i registri dell’impegno, dell’onore e dell’infamia, la lavagna del biasimo e dei meriti, la pagella quotidiana, il registro della curva delle prestazioni.

L’educatore demiurgo. «E quale gioia rappresenta per il pedagogo seguire con occhio indagatore l’umanità che passa da uno stadio all’altro o guidarla con la sua mano che dirige e mette ordine. Vede il germoglio, il bocciolo, la gemma, forse il primo accenno del frutto, vede il graduale passaggio dalla notte al crepuscolo, poi all’alba e infine alla luce del mattino. […] E se il materiale grezzo che egli lavora finisce per svilupparsi e svelare tutti i suoi incanti inizialmente celati, da lui scoperti e portati alla luce, quale anonima gioia dev’essere per la sua anima sensibile! Oh, nemmeno Fidia osservava con tanto rapimento l’opera della sua arte, quando il blocco di marmo grezzo, senza colore e forma si sviluppava gradualmente tra le sue mani creative, quando sotto il suo scalpello si delineava un arto, un tratto dopo l’altro, e infine compariva in tutta la sua grandezza e bellezza la statua dell’eroe o delle Grazie!»  (308-309). Educatore come artefice, creatore, costruttore.

Tabula rasa. In ogni caso, è sottesa una concezione del bambino come tabula rasa sui cui imprimere e materia grezza da plasmare, contenitore da riempire, energia vitale da ammansire, inibire, contenere, alberello da potare e piegare nel verso giusto, animaletto selvatico da addomesticare e ammaestrare.

Troviamo, in questa rassegna nomi noti, che pure hanno per altri versi costituito punti di riferimento nella storia delle idee: Pestalozzi, Kant, Herbart, Jahn, Schreber. Su questi ultimi due vorrei soffermarmi.

  1. Ludwig Jahn, professore all’università di Berlino, nel 1810 fonda la Lega tedesca (Deutscher Bund), un’associazione segreta per la liberazione e l’unificazione della Germania. A tale scopo fonda anche le corporazioni studentesche, per diffondere la cultura teutonica e incoraggiare i giovani tedeschi a rafforzare il fisico. Crea il movimento ginnico e nel 1816 viene dato alle stampe L’arte ginnica tedesca, che diviene in breve una sorta di Bibbia per una nuova educazione popolare attraverso il corpo. Le prese di posizioni nazional-patriottiche, la sua capacità di organizzare le masse in un movimento nazionale, il culto dello sport, della forza e della perfezione fisica, furono ispirazione per il regime nazista.[5]
  2. Moritz Schreber si rese celebre redigendo dei manuali grazie ai quali pretendeva di rimediare alla decadenza della società creando un uomo nuovo: uno spirito puro in un corpo perfetto. Creò una ginnastica ortopedica in grado di realizzare l’armonia corpo-mente-spirito. L’attività fisica per temprare il corpo e la mente dei bambini, è vista come una componente importante dell’educazione, li prepara alla vita e alle sue durezze, al dolore, alla fame, alla sete, al caldo e al freddo. Questo pedagogo allevò i suoi due figli secondo tali metodi. Del primo sappiamo poco, se non che morì suicida, del secondo sappiamo molto poiché si tratta di Daniel Paul Schreber, l’autore dell’autobiografia: Memorie di un malato di nervi, sulla quale Freud ha basato la sua teoria della paranoia, ripreso da Lacan, da Canetti e più recentemente da Schatzman (La famiglia che uccide).

Pedagogia e psichiatria di fine ‘800

Disciplinare e segregare qualcuno è stato nei secoli un modo di reagire alla diversità, un modo per rispondere alla paura del caos, dell’estraneo, dell’imprevedibile, del non conosciuto: lo straniero, il folle, il bambino, la donna. I collegi così come le case di correzione o gli asili psichiatrici nel XIX e XX sec., si proponevano l’educazione e la riabilitazione, la ricostruzione morale, il reinserimento sociale.[6] Proprio nell’ottica di un bambino che deve diventare un adulto “normale”, ben integrato all’ordine familiare e sociale, le pedagogie corrispondenti si davano da fare per convincerlo che la vita passava attraverso un intenso addestramento corporale e psichico consistente nel renderlo migliore. Magari isolandolo in collegi-caserme.

Mentre tutte le scienze umane si affannavano a capire come disciplinare l’essere umano; mentre la psichiatria, la neurologia, la psicologia, la pedagogia, la sociologia, individuavano leggi di funzionamento naturali e sociali atte a dire come è e come dovrebbe essere l’essere umano – generando necessariamente patologizzazione, esclusione, segregazione – ebbene, mentre imperversa questo furore “positivo”, arriva Freud e cosa fa? Cede la parola alle isteriche. Le fa parlare!

La mia ipotesi è che la pedagogia dal suo nascere è andata avanti fino alla seconda guerra mondiale senza tener conto della discontinuità che Freud aveva introdotto con l’invenzione della psicoanalisi (una nuova concezione dell’infanzia, dello sviluppo, dell’educazione, un nuovo approccio e nuovi metodi). Forse ancora oggi la pedagogia fatica a fare tesoro della scoperta freudiana.

  1. Kant con Sade

A proposito di Kant e dell’aporia che sta al cuore di tutta la pedagogia illuminista (e non solo), la Rutschky, pur non facendo riferimento al testo di Jacques Lacan, Kant con Sade, sembra averne colto la lezione.

Rutschky parla di una vera e propria coazione civilizzatrice, una coazione a educare, un furor educandi che talvolta conduce a vere e proprie “orge educative” (589). Una coazione che rivela il lato irrazionale, pulsionale dell’educare; rivela il segreto e oscuro godimento dell’adulto. Da un lato il godimento dell’adulto potente che plasma e piega un essere umano, dall’altro l’estrema vicinanza e confusione col bambino (che porta alla tenerezza, alla seduzione, alla molestia e all’abuso). Due facce del godimento che sono anche due facce della violenza: la violenza che costringe, punisce, annienta la volontà e la violenza che seduce e abusa.

A un certo punto i pedagoghi si rendono conto di questo “inopportuno” e pericoloso godimento che può prendere la mano (in un senso o nell’altro) e allora cercano di resistere, di allontanare questa tentazione aggressiva o seduttiva. Nei testi di questi pedagoghi si comincia a mettere in discussione l’uso delle punizioni corporali, non tanto perché le si ritiene inefficaci o dannose, ma perché coinvolgono troppo l’educatore. Infatti troviamo raccomandazioni a non provare e a non manifestare emozioni quando si punisce, in tal modo non si avranno sensi di colpa, non avendovi preso parte emotivamente. «L’educatore deve escludere ogni arbitrio ed estro lunatico dalla sua attività punitiva, mantenendo il tono freddo e non passionale» (635). La violenza prende toni impersonali, oggettivi: non sono io che voglio punirti, lo esige la morale, la scienza educativa, dio stesso.

Nel 1962, lo psicoanalista Jacques Lacan scrive Kant con Sade, testo scioccante in cui sostiene la continuità tra l’etica del filosofo e quella libertina, da un lato Kant, il teorico della legge morale, autore della Critica della ragion pratica, e dall’altra il teorico del libertinismo, autore della Filosofia nel boudoir. Ovviamente, per Lacan le due teorie non sono agli antipodi, bensì una è il rovescio dell’altra. Lacan utilizza Sade come “rivelatore” di qualcosa in Kant. Infatti, dice che La filosofia nel boudoir «completa e dà la verità» (p. 766) della Critica della ragion pratica.

L’obiettivo di Kant è la determinazione delle condizioni di possibilità per cui si possa giudicare un’azione “buona” indipendentemente dall’esperienza sensibile individuale; egli cerca, cioè, gli elementi essenziali, necessari ed universali, validi per tutti allo stesso modo per giungere così a una morale “formale”, che prescinda da ogni contenuto sensibile. La legge morale assoluta, secondo Kant, è incondizionata, necessaria e universale. La legge morale è imperativo categorico, ovvero non è condizionata da nessun oggetto, affetto o sentimento. L’imperativo categorico esprime una volontà pura ed è valido per tutti gli uomini in tutte le condizioni: «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale.» Per giungere a questa formula, Kant ha dovuto «escludere, pulsione o sentimento, tutto ciò di cui il soggetto può patire nel suo interesse per un oggetto, e che Kant designa come patologico» (p. 766).

In questo senso, per Lacan, Sade è il rovescio che completa la legge morale.

Nella parte centrale de La filosofia nel boudoir Sade propone una legge molto simile a quella di Kant che mette, però, come sua regola il godimento: «Ho il diritto di godere del tuo corpo, può dirmi chiunque, e questo diritto lo eserciterò senza che alcun limite mi fermi» (p. 768). Tale regola assomiglia a quella kantiana in quanto è una legge universale, che vale per tutti. “Umor nero”, commenta Lacan… che, però, svela il vero volto del Super-io (p. 769). Ecco allora che la massima sadiana coglie la «felicità nel male» (p. 765) che si annida nel cuore nero dell’educatore.

  1. Modernità della PN

Ciò che sorprende nell’analisi della Rutsky non è l’aver messo a fuoco la violenza educativa dei regimi totalitari del ‘900, quanto di averne mostrato le radici nella pedagogia illuminata che da fine ‘700 arriva ai teorici contemporanei a Hitler. Operazione che già nel ’64 aveva fatto George L. Mosse con Le origini culturali del Terzo Reich, in cui i fondamenti ideologici del nazismo sono ricondotti al romanticismo. Temi e valori della cultura romantica sono assunti, sviluppati e deformati dal nazionalsocialismo: l’idea mitica del Volk, il misticismo naturalistico, l’irrazionalismo neoromantico, la riscoperta di un passato mitologico, un’ideologia nazional-patriottica, l’elezione delle radici, del suolo, della razza. In questo parallelo dei due studi non vogliamo solamente confermare l’idea che la PN delle dittature ha delle radici storico-culturali, che non è nata dal nulla, ma soprattutto che non era percepita “nera” né dai pedagoghi precursori, né dalle persone che negli anni dei totalitarismi la subivano. Anzi, pedagoghi e scienziati d’ogni risma continuarono a sostenerla e teorizzarla; insegnanti, famiglie e giovani continuarono ad accettarla come il bene promesso o il male necessario. Come ricorda Mosse: «non va dimenticato che i nazisti raccolsero i maggiori consensi proprio tra gente istruita e ben pensante» (p. 9).  Lo studioso nella ricerca di quelle radici, mostra il modo in cui prende forma nella Germania del romanticismo una ideologia incentrata sul Volk come termine ultimo dell’identità germanica. Volk non è semplicemente “popolo”, indica una comunità legata da una essenza profonda di volta in volta chiamata “natura”, “cosmo”, “origine mitica”. Progressivamente tale ideologia permea di sé tutta la società. Il sistema scolastico e la pedagogia in primis. La gioventù aveva trovato in Ludwig Jahn il suo profeta. Con il movimento ginnico presero forma il culto del corpo, il patriottismo e la nazionalizzazione delle masse.

Sono qui i primi vagiti dell’uomo totale, l’uomo nuovo che rifonderà la grande nazione. La rinata coscienza della grandezza germanica si rifletteva sia nelle arti e nella letteratura, sia nella cultura filosofica e delle nascenti scienze umane. I rapporti tra l’ideologia del Volk e la cultura pedagogica furono profondi. Il contributo del sistema didattico alla formazione di menti giovani e ricettive a quella ideologia fu decisivo. Insegnanti, studenti, organizzazioni studentesche, convergevano. Il Movimento giovanile, fondato nel 1901 riassume tutte queste traiettorie che dal movimento ginnico passa dall’ideologia del Volk, al culto delle origini, all’idealizzazione della natura e dà nuova linfa alla mitologia dell’azione e dell’eroismo. Per fare ciò deve professare un conseguente anti-intellettualismo e un rifiuto del Modernismo a favore della semplicità della tradizione. La cultura romantica realizza così una saldatura tra istanze diverse: natura, sangue, razza, suolo, nazione e tra corpo, volontà, azione.

Un altro studioso è andato alla ricerca di quelle radici. Il terreno in cui le ha trovate sono molto più vicine al momento in cui si vedono i frutti nel Terzo Reich. Si tratta di Zygmunt Bauman che in Modernità e olocausto porta le radici proprio nella cultura positivista di inizio ‘900. Il mio studio sulla PN ha preso le mosse proprio da Bauman: è possibile parlare di PN così come Bauman parla dell’Olocausto. Non semplicemente una aberrazione avvenuta in un certo tempo e in certi luoghi. Non semplicemente un errore, una deviazione dalla giusta via della pedagogia, una mostruosità da rigettare negli angoli bui della storia. Nell’analisi dell’olocausto Bauman portava le radici del nazismo nel cuore della modernità, in particolare nelle istanze del mondo nuovo con i suoi laboratori di ingegneria sociale (avvalendosi della psicologia e della pedagogia), nella cieca fiducia nel progresso, negli apparati burocratici, nella saldatura tra scienza, tecnologia e capitalismo, nella riduzione del sapere a tecnica. Insomma, al di là delle interpretazioni rassicuranti tendenti a ridurre l’olocausto a una sorta di “malattia” sociale e a un episodio della storia millenaria dell’antisemitismo, Bauman lo legge come fenomeno inestricabilmente legato alla condizione “normale” della società moderna. È nella ricerca di valori positivi e di un nuovo ordine (di un mondo nuovo, di un uomo nuovo) che si motivarono le politiche autoritarie del ‘900. Si individuarono gruppi umani, categorie culturali e prassi sociali inadatti al nuovo ordine, progettato per rimpiazzare le caotiche realtà, per costruire il mondo migliore, purificato di tutte le mescolanze, le impurità, le imperfezioni. L’Olocausto sarebbe inconcepibile fuori dal quadro della società moderna. Difficilmente sarebbe stato possibile senza invenzioni tipicamente moderne come la tecnologia industriale, la burocrazia, con la meticolosa divisione del lavoro che deresponsabilizza e aliena rispetto al senso e ai fini dell’operare, la neutralizzazione delle convinzioni personali (razionali ed etiche), la rigida gerarchia di comando e disciplina, l’ambizione manageriale di subordinare la realtà sociale a un modello di ordine economico e razionalmente progettato. Tutte queste innovazioni non a caso erano anche le cause degli spettacolari successi dell’era moderna industriale e scientifica. È una nuova forma mentis in cui la progettazione di una società superiore non può tollerare ordini locali, particolari; tutto ciò che è fuori posto e inadatto va eliminato come “scarto”. Il debole, il non meritevole, il non abile non sono funzionali a una società dell’eccellenza. Per rendere armonico un giardino bisogna estirpare le erbacce. Il genocidio fu l’ultima conseguenza di una visione razionale dove tutto doveva essere classificato, definito, gerarchizzato, reso coerente con il progetto di una società produttiva, ordinata, efficiente, eccellente. La domanda che si impone con forza dopo le analisi di Rutschky, di Mosse e di Bauman è: siamo sicuri che noi oggi non stiamo creando il terreno adatto per la nascita di una nuova forma di pedagogia nera?

  1. Nuovi semi di pedagogia nera

Non è, quindi, solo per una prospettiva storica che qui riprendo la formula. Non è solo per mostrare le radici, piuttosto identificare i semi che nel nostro tempo possono far germogliare pratiche pedagogiche non così macroscopicamente repressive, autoritarie, punitive, ma non per questo meno pericolose. Spesso si tratta di atteggiamenti, idee, teorie, prassi assimilate come un virus invisibile e a incubazione lenta che produce effetti devastanti; o come un veleno inodore, insapore a effetto ritardato. Semi di pedagogia nera reperibili anche in una società non autoritaria e non repressiva; reperibili al di là delle cattive intenzioni, persecutorie o punitive (come abbiamo visto, le buone intenzioni animano i pedagoghi d’ogni tempo); reperibili al di là degli effetti evidenti, immediati (le conseguenze a lungo termine sono quelle che nella clinica registriamo quotidianamente).

È la normalità del male, delle piccole e grandi violenze di cui parlava Arendt.[7]

Adorno parlava di una “autorità nascosta” (1982, 131).

Una pedagogia che resti fedele al principio antiautoritario deve esplorare i nuovi campi di autorità nascosta, per tematizzarla e problematizzarla. Questa autorità nascosta nel frattempo è diventata ubiquitaria, interiorizzata grazie ai più diversi meccanismi di socializzazione. Autorità nascosta si ritrova nella propaganda della merce così come nell’industria culturale, nell’uso dei test e della psicodiagnostica, nel dilagare di standard formativi fissati da riforme, circolari e programmi. La possiamo rintracciare tanto nei contenuti e nell’estetica dei videogiochi e dei computer game, quanto nella lingua stessa che da essi promana. Rilevare l’azione di queste tecniche autoritarie subliminali è, nell’attuale società, un compito essenziale dell’attività pedagogica.

L’idea corrente di quel che è la PN ha ormai bisogno di essere rivista, per dirigere l’attenzione su quei processi nascosti, sottili, sotterranei che, al di là di una violenza palese, forzano lo sviluppo infantile in certe direzioni. L’effetto è un condizionamento totale che non viene percepito come tale, appunto perché deforma in maniera non visibile la soggettività infantile. La PN ha allora solo conosciuto un’altra metamorfosi, ha cambiato i suoi strumenti, mezzi, metodi, non la sua tendenza fondamentale, è diventata per così dire più totalitaria. Animato da una domanda – quali saranno gli effetti dei sistemi educativi di oggi? – vorrei, quindi, focalizzarmi sulle persistenze e su nuovi semi della PN nelle pratiche educative e in alcuni modelli psicologici contemporanei. Ripeto, non si tratta qui di invocare lo spettro di una educazione autoritaria, violenta, ma di individuare quelle idee onnipervasive che si intrufolano nelle pratiche educative attraverso il linguaggio, le abitudini, gli immaginari, le teorie scientifiche, le micro azioni quotidiane.

Michel Foucault ha parlato di microfisica del potere, oggi il potere non ha bisogno di imporsi con la forza, non ha bisogno di vestire i panni del dittatore, del padrone. È sufficiente una microfisica che si intrufoli nei corpi docili attraverso il linguaggio, i modelli, appunto, ma anche attraverso un modo di concepire la trasmissione tra le generazioni, sempre più orientata da saperi iper-specialistici, dalla tendenza a ridurre il sapere a tecnica, da nuove forme di burocrazia, dalle nuove forme di esclusione e segregazione, dall’organizzazione spazio/temporale dettata dai nuovi media, dalla creazione di una nuova lingua e una nuova forma mentis.

Siamo immersi in una cultura formativa in cui i punti di riferimento sono l’utilitarismo, l’adattamento, la performance, le competenze, il merito, l’efficacia, la valutazione, i risultati;[8] si va sempre più verso una burocratizzazione dell’insegnamento, verso un linguaggio semplificato e verso l’adozione di procedure standardizzate che mirano a una educazione a competenze specializzate; si afferma sempre di più una concezione della mente umana che cerca corrispondenze certe tra cervello, apprendimento e comportamento; si preferisce la visione dello sviluppo concepito per stadi, tappe evolutive, gradi di acquisizione di una realizzata maturità e normalità.Solo guardando in controluce si può scorgere, la filigrana, il disegno, le linee portanti di un progetto pedagogico che fa sue tutte le conquiste delle scienze umane, psicologia e pedagogia, in primis. La società contemporanea non è al riparo da una pedagogia aberrante.

  1. La civiltà della tecnica e la burocrazia

Il vissuto di un soldato che, manovrando un drone, uccide una persona a centinaia di chilometri di distanza è certamente diverso da un soldato che guarda negli occhi il suo nemico prima di sparargli. La distanza è un modo per rendere “più facile” uccidere. Ci si sente meno coinvolti e responsabili. Nella vita quotidiana ci sono molte strategie per sentirsi meno responsabili quando una nostra azione crea un disagio, una sofferenza a un’altra persona e ancor meno quando a subire gli effetti della nostra azione non è uno ma tanti, tantissimi senza nome e senza volto. La distanza non è l’unico modo in cui si cela la violenza.  «Il progresso burocratico si è mosso nella stessa direzione, creando la possibilità di trattare grandi quantità di individui come se fossero puri numeri: un altro modo molto efficace di considerarli a distanza» (Ginzburg, 237). Le procedure, i protocolli, la meccanizzazione, l’impersonalità dei sistemi burocratici permettono di tenersi a distanza e deresponsabilizzarsi di ogni effetto.

Allo stesso modo, l’iper-specializzazione dei saperi porta a una distanza. Si pensi alla medicina, sempre più il rapporto medico-paziente è alienato dalla settorializzazione che impedisce una presa in carico e una responsabilità: se si sbaglia, se non si interviene, se gli effetti della propria azione provocano sofferenza o morte, dipende dal sapere incompleto e frammentario che si riflette nella prassi clinica. Se la specializzazione separa, burocratizza la cura, è pur vero che senza specializzazione non c’è scienza: «In questo terreno nasce e cresce la scienza moderna in quanto specializzazione scientifica, cioè come forma radicale della separazione. […] Per avere potenza, la scienza e la tecnica devono innanzitutto pensare il mondo come composto di parti separate tra loro. […] All’interno di questo pensiero, che guida l’intera civiltà occidentale, la violenza più tragica e più atroce risulta innocente» (Severino 1993, 109-110).

Un modo in cui la violenza può ammantarsi di innocenza è la delega della propria azione alla tecnica. I disagi e le sofferenze che una macchina, un algoritmo possono provocare non sono frutto di intenzione e responsabilità umana, non c’è una persona cattiva, violenta o disumana ad averli causati. Ma non per questo la violenza sparisce. Severino avverte: «Bisogna salvare l’uomo dalla disumanità della tecnica. Sul versante opposto – si pensi a Burrhus F. Skinner – si ritiene invece che si debbano salvare le strutture della scienza e della tecnica dall’irrazionalità dell’individuo umano. Scienza e tecnica salvano l’uomo proprio perché non sono umane, cioè sono libere dai vizi dell’uomo. Sono disumane, dunque, sia per i loro avversari sia per i loro amici», sono incondizionate (1993, 140). Si riaffaccia l’etica kantiana e il suo rovescio violento, disumano: escludere desiderio, affetto, singolarità come patologici. Anche qui, in questo “paradiso della tecnica” non inquinato dall’umano patologico, rispondiamo con Kant con Sade. Rispondiamo con la psicoanalisi. Con la sua voce e la sua prassi clinica. Voce flebile nel chiasso delle psicologie e psicoterapie oggi dominanti, non a caso ispirate da quel sapere tecno-scientifico che ha visto in Skinner il suo più tenace profeta. Teorico del Comportamentismo (Behaviorismo), che in ambito psicologico e pedagogico divenne in breve l’approccio antagonista alla psicoanalisi, Skinner volle prefigurare in un romanzo utopico la società plasmata dall’educazione comportamentista. Comincia a scriverlo nel 1945, proprio in risposta alle tragedie e alle distruzioni della seconda guerra mondiale. Walden Two, pubblicato nel 1948, descrive il mondo ideale in cui regna la giustizia sociale e il benessere dell’uomo; la guerra e la violenza sono state estirpate grazie all’aiuto della “ingegneria comportamentale” (behavior modification). Il cambiamento del comportamento si è potuto ottenere tramite il “rinforzo positivo”. La punizione è efficace ma solo temporaneamente. A Wolden Two tutto è programmato, il governo è una scienza; non c’è spazio per l’errore umano, quindi per la democrazia, tutto è gestito e deciso da intelligenze tecniche.

Oltre che utopico, dobbiamo ammettere che è stato anche profetico!

Infatti, l’odierna civiltà della tecnica rappresenta lo sviluppo estremo del pensiero occidentale. Nelle scienze umane abbiamo assistito negli ultimi anni a una escalation di metodi standard, di concetti operazionali, di schede, protocolli, questionari atti a descrivere, a valutare, a definire e progettare comportamenti, vissuti, interazioni. Si è cominciato a settorializzare, a classificare, a patologizzare, a curare e prevenire ogni comportamento, ad esempio le varie sindromi scolastiche: ADHD, DSA, BES. Come è facile dedurre, i metodi con cui si combatte la vitalità o la diversità del bambino non sempre sono violenti e autoritari!

Per non parlare dell’imperante follia Evidence Based, di chiara derivazione Behaviorista. Non solo la Medicina EB ma anche la Psicologia EB e la Pedagogia EB, secondo cui tutto deve essere oggettivato, misurato, ciò che non è tangibile o rilevabile non esiste. È quindi necessario trovare standard oggettivi di misurazione di stati della mente e del corpo, di comportamenti o di tendenze. Per l’EB conoscere le risposte è più importante che porsi le domande, le risposte del soggetto sono già previste da questionari, test, protocolli, non c’è vero ascolto. Ci si accontenta della banalità dell’uguale, del certo. Per l’EB va cestinato tutto ciò che non è evidente: l’inconscio, il desiderio, la pulsione, la storia personale e familiare…

Così, la scuola è stata travolta dalle varie direttive sulla valutazione, sulla certificazione oggettiva delle competenze. I test scolastici sono diventati un mezzo per misurare il grado di banalizzazione. Se lo studente ottiene il punteggio massimo è segno che lo studente è completamente prevedibile e quindi può essere ammesso nella società. Non sarà fonte di sorprese, né di problemi. La scuola è concepita come servizio non come cuore di una specifica comunità, tutte le riforme degli ultimi 25 anni sono andate in questa direzione.

Emanuele Severino notava come, ancora oggi «l’ingenuità delle destre è una cieca apologia della potenza tecnologica-scientifica» (2003, 107), e come in realtà non sappiamo valutare gli effetti di questa “potenza” della tecnica. La sensazione è di trovarsi nel mezzo di una vera e propria mutazione antropologica che parte proprio dai bambini e dai giovani GenerazioneZ. È in corso questa metamorfosi che riguarda il corpo, la lingua, le relazioni. Immaginiamo un dispositivo capace di polarizzare l’attenzione e il desiderio al punto da rendere opzionale, residuale la presenza fisica dell’altro e quindi il suo sguardo, il suo contatto, l’interazione diretta. La tecnologia mi consente quella distanza che mi mette al sicuro dall’imprevedibilità dell’Altro. Mi sento meno implicato, meno responsabile e quindi libero di non mettermi in gioco. Quale sarà l’effetto a medio e lungo termine di questa “formazione”? Forse ne risulterà alterato il rapporto con l’altro, il desiderio dell’altro, addirittura la sessualità ne risulterà condizionata. Se, come ci ha insegnato la psicoanalisi, incessantemente desideriamo il desiderio dell’altro, e se questo ci portava a dare importanza allo sguardo, al gesto, alla vicinanza, alla compenetrazione dei corpi… ora che possiamo con un clic far apparire un volto, una presenza, uno sguardo, una voce che sembrano rivolgersi a noi, perché affannarsi per cercarli nel “prossimo”? Un cellulare non ha una sua intenzione (buona o cattiva), non ha desideri, quindi sono io a condurre il gioco!

  1. Il corpo docile tra biopolitica e igienismo

Quello del bambino è il corpo docile per eccellenza, tenero, plasmabile, ricettivo. È il terreno su cui ogni forma di PN verifica le sue possibilità.

Se guardiamo all’educazione non come una innocente pratica di insegnamento basata sul passaggio di informazioni dal docente al discente, ma piuttosto come pratica politica votata alla produzione di soggettività catturate in un gioco di rimandi continui fra sapere e potere, ogni sistema educativo ci apparirà un modo per plasmare. Foucault ha parlato di procedimenti disciplinari, fabbriche di «corpi sottomessi ed esercitati, corpi docili» (1976, 150), dove per corpo docile intende: «un corpo che può essere sottomesso, che può essere utilizzato, che può essere trasformato e perfezionato» (1976, 148). Il corpo dell’allievo viene catturato in una fitta rete di dispositivi “microfisici” che lo modellano. Il corpo docile rappresenta la zona di incontro di queste due istanze: conoscere il corpo, governare il corpo. Per farlo il potere si serve di una pluralità di dispositivi,[9] una pluralità di discipline votate alla cura, alla progettazione e alla trasformazione del corpo: medicina, psicologia, pedagogia. La medicina è divenuto lo strumento principale per esercitare questo potere. È un sapere e una prassi per governare e disciplinare i corpi attraverso la pervasività dell’igienismo, della farmacologia, della statistica, dell’introduzione del calcolo in ogni aspetto della vita, che contribuiscono a tratteggiare le linee del binomio normale-patologico e ad offrire sempre nuove opportunità di manipolazione (genetica, estetica). Tappe fondamentali attraverso le quali si attua il passaggio a ciò che Foucault ha chiamato biopolitica, il controllo della vita biologica: plasmare o innestare funzioni o parti del corpo, controllare e mutare le condizioni della nascita, della procreazione, della morte.

Ovviamente è un vasto campo che riporta in auge l’igienismo: la lotta contro le tare, le anomalie, l’ossessione per patologie, profilassi e cura, la rieducazione e la correzione delle anime e dei corpi. Potremmo parlare anche di una bio-estetica.L’attenzione al corpo, all’immagine, alla bellezza, alla forma, alle capacità performative (che arriva a livelli maniacali come nella vigoressia), sono tratti ben riconoscibili della nostra epoca. Un’attenzione che spesso si accompagna a uno sminuire il pensiero, la cultura. Nel Mein Kampf Hitler, nell’indicare i criteri generali dell’educazione, colloca in primo piano l’aspetto fisico. In questo programma pedagogico la formazione dell’intelletto, il suo nutrimento culturale stanno all’ultimo posto.

  1. La lingua del Terzo Reich

Un’epoca si esprime attraverso il suo linguaggio. Il ruolo che l’uso della lingua ha avuto nel Terzo Reich è stato messo in rilievo da un linguista perseguitato: Victor Klemperer. Per tutto il periodo in cui il nazismo restò al potere in Germania, Klemperer prese annotazioni sulla lingua del regime, che denominò LTI, Lingua Tertii Imperii. Le principali operazioni compiute dalla LTI sul tedesco tradizionale erano selezionedeformazione e ripetizione di termini, di frasi-slogan, di figure retoriche. Per esempio: fanatismo era fino a quel momento connotato negativamente, come ossessione religiosa antirazionale; il nazismo ha scelto questo termine (selezione), lo ha riconvertito a un valore positivo, di fedeltà cieca e devota al regime (deformazione), lo ha reiterato incessantemente (ripetizione). Qual è il risultato? Se al posto di eroico e virtuoso si reitera fanatico alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù.

Klemperer ha posto la sua analisi sotto il segno di un verso di Friedrich Schiller: “la lingua che crea e pensa per te”. La lingua crea, pensa, sente in ognuno di noi. Non solo il pensiero è strutturato dal linguaggio, il sentire stesso, le reazioni affettive sono plasmate dalla lingua. E «quanti concetti, quanti sentimenti ha profanato e intossicato questa lingua!», scrive Klemperer (p. 16). Il mezzo di propaganda più efficace del sistema hitleriano non erano i discorsi e neppure gli articoli, i volantini, i manifesti, le parate, le bandiere. «Il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente» (32). Si insinuava non tanto grazie ai significati che portava ma grazie al potere dei significanti, significanti in grado di far risuonare pulsioni profonde. Grazie allo stile: la LTI era una lingua povera di significati, monotona, grossolana che aborriva la polisemia e amava le parole-formule, gli acronimi. Klemperer fa notare come di solito si attribuisce un significato puramente estetico e innocuo al verso: la lingua crea e pensa per te. «Ma la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico» (p. 32). La lingua può essere un veleno mortale: sciolto nell’acqua potabile che tutti bevono. Così, «la lingua di un gruppo divenne lingua di un popolo, si impossessò cioè di tutti gli ambiti della vita, pubblici e privati: la politica, la giustizia, l’economia, l’arte, la scienza, la scuola, lo sport, la famiglia, gli asili e le stanze dei bambini» (36). Il nazismo inaugura non solo la guerra totale, ma vuole una lingua totale, un’arte totale: «dovunque nella LTI ci si imbatte nel ‘totale’: un articolo del Reich lodava la “situazione educativa totale” di una scuola femminile di rigida osservanza nazista; in una vetrina vidi un gioco da scacchiera definito il gioco totale» (262).

Grazie all’enfasi, alla ripetizione, alla pervasività dei significanti le menti sono soggiogate dalla LTI. I discorsi di Hitler e di Goebbels generavano una vera e propria ipnosi, non per la loro costruzione retorica o lo svolgimento logico, ma per l’enfasi, la teatralità, la voce.[10] È possibile trovare abitudini linguistiche che permangono e intossicano anche il presente. La lingua del terzo Reich sembra voler sopravvivere in parecchie espressioni penetrate così a fondo nell’uso quotidiano e soprattutto nelle modalità di imporsi nella comunicazione di massa.

La parola nazista era imposta grazie al controllo assoluto dei mezzi di comunicazione, grazie a un apparato propagandistico suggestivo, a una comunicazione estetizzata, semplificata, imperativa, ripetitiva. Oggi sono ricorrenti i timori che qualcosa del genere si stia manifestando anche nella nostra società di massa, in altre forme, e sulla base di sospiri anziché di detonazioni. Certamente quelle tecniche di selezione, deformazione e ripetizione tipiche della propaganda dei totalitarismi del primo Novecento sono state poi riprese dal marketing e di qui sono tornate alla politica di fine Novecento, sia pur depurate dagli ideologismi espliciti.

  1. Lingue d’oggi

Lingua semplificata

Come ci ha insegnato Eco, ogni forma di fascismo parla una lingua semplificata. Tutti i testi scolastici nazisti o fascisti si basavano su un lessico povero e su una sintassi elementare, al fine di limitare gli strumenti per il ragionamento complesso e critico. La riflessione comporta critica, presa di coscienza, tutte cose che mal si addicono all’uomo produttivo, disciplinato, obbediente. Abbiamo visto come nei manuali di pedagogia ottocenteschi si promuovesse una lingua letterale, operativa, prescrittiva. Nell’esigenza di semplificare e far corrispondere le parole a nuove idee, a nuovi valori, i regimi totalitari non hanno solo deformato la lingua, l’hanno trasformata, reinventata. Proprio come nel romanzo distopico di Orwell 1984, nel fascismo, nel nazismo e nello stalinismo si plasmò una “neolingua”. Non è un caso se le più famose distopie immaginate dai letterati abbiano individuato nella lingua, nel suo pervertimento, nella sua degradazione, il punto su cui un sistema totalitario deve far leva per affermarsi: 1984 (Orwell), Noi (Zamjatin), Il mondo nuovo (Huxley), Fahrenheit 451 (Bradbury).[11] Ma, Eco ci esorta a identificare nella nostra società altre forme di neolingua, anche quando prendono la forma innocente di un popolare talkshow. E che dire della semplificazione della lingua digitale dei social, degli sms? L’epoca degli sms pretende l’esplicitazione, la facilità, l’immediatezza che comporta la diminuzione della conoscenza lessicale e l’impoverimento della lingua. La graduale scomparsa dei tempi verbali dà luogo a un pensiero quasi sempre al presente: incapace di proiezioni nel tempo. La semplificazione dei tutorial, la scomparsa delle maiuscole e della punteggiatura sono esempi di “colpi mortali” alla precisione e alla varietà dell’espressione. Meno parole e meno verbi coniugati implicano meno capacità di esprimere emozioni/elaborare un pensiero. Gli studi hanno dimostrato come parte della violenza derivi direttamente dall’incapacità di descrivere le proprie emozioni attraverso le parole. Senza parole, non c’è ragionamento. Si sa che i regimi totalitari hanno sempre ostacolato il pensiero, attraverso una riduzione del numero e del senso delle parole. Se non esistono pensieri articolati, non esistono pensieri critici.

Lingua omologata

La semplificazione consente una condivisione più facile e generalizzata. Ma questo comporta una perdita di profondità, di polisemia, di bio-diversità linguistico-culturale, di tradizione, di identità. L’omologazione della lingua è stata una vera e propria ossessione nelle riflessioni di Pasolini. Qui vorrei limitarmi a citare un trattatello pedagogico: Gennariello che prende il nome da un ipotetico ragazzo partenopeo a cui Pasolini si rivolge nella rubrica “La pedagogia” sul settimanale Il Mondo. In questi articoli Pasolini analizza i metodi di educazione del ragazzo: i compagni, i genitori, la scuola e la televisione. Riflette sulla perdita di autorità della scuola, definita «insieme organizzativo e culturale di diseducazione» che concepisce il ragazzo «un povero idiota, umiliato, anzi degradato, incapace a capire, chiuso in una morsa di meschinità mentale». I maestri elementari e i professori non sono altro che duplicati dei padri e delle madri, autori della sua diseducazione. Ma soprattutto, riflette con orrore sul ruolo ormai decisivo della televisione che incarna la nuova società dei consumi e sta portando i giovani al conformismo sociale e all’omologazione linguistica. Pasolini se la prendeva con la televisione per aver ucciso la biodiversità linguistica, per aver appiattito ogni sporgenza dialettale, per aver ridotto la lingua e la cultura di ogni italiano alla comunicazione di massa, cioè allo statuto di consumatore. Il risultato oggi è una lingua massmediatica, impoverita, esangue a scuola come nei giornali, al cinema come nei talk-show, a cena come nei messaggi al cellulare.

Lingua algoritmica           

Sempre più siamo esposti a dispositivi che basano l’elaborazione e la comunicazione su algoritmi.[12] Velocemente stiamo assorbendo un modo di pensare e di comunicare basato su modalità algoritmiche, che sta sostituendo la modalità del linguaggio. L’algoritmo traduce ogni problema in operazioni all’interno di un programma, scritto in un linguaggio automatizzato che può essere eseguito da un computer. Il pensiero algoritmico è procedurale, calcolabile, programmabile, operazionale,[13] direttivo, prescrittivo, denotativo. È un pensiero che prende il posto del pensiero analogico, metaforico, metonimico, allusivo, poetico, equivoco…. elude la dialettica del desiderio: l’algoritmo non implica un’intenzione, un desiderio del mittente. La parola, il messaggio nasce da una procedura, appunto.[14] Già Klemperer aveva individuato nella meccanizzazione linguistica un primo passo per burocratizzare la vita e applicare la metafora tecnica direttamente a una persona. Nella LTI il verbo più usato a tal proposito è gleichschalten (sincronizzare, livellare, uniformare). Non esiste nulla che non si possa avviare (anlaufen), che non si possa revisionare (überholen) o progettare (designen) come si fa con una macchina. Ognuno, diremmo oggi, può essere formattato, riprogrammato, resettato.

Lingua specialistica

C’era una volta un tizio che chiese al suo calcolatore: «Calcoli che sarai mai capace di pensare come un essere umano? Dopo vari gemiti e cigolii, dal calcolatore uscì un foglietto che diceva: la tua domanda mi fa venire in mente una storia…» (Bateson, 59). Per dire ciò un computer dovrebbe avere un desiderio. Dovrebbe avere linguaggio, mancanza, fantasma… dovrebbe avere un corpo e goderne. Ma non è così! Ciò implicherebbe un linguaggio complesso fatto di metafore, allusioni, evocazioni. Lingua narrativa vs lingua algoritmica, lingua desiderante vs lingua meccanizzata, lingua complessa vs lingua complicata. Abbiamo visto come la nostra società si va sempre di più definendo come tecno-scientifica. I saperi sono sempre più specialistici e ogni disciplina sviluppa una sua lingua, una neolingua operazionale, algoritmica, semanticamente semplificata e refrattaria allo scambio discorsivo, evocativo, narrativo.

Lingua prescrittiva

L’effetto principale di queste operazioni semplificate, specialistiche, è una lingua prescrittiva, ridotta a descrivere e a fornire informazioni, a impartire procedure, a dare libretti di istruzioni. Ogni volta che una lingua volge alla prescrizione (sia pure sotto forma di raccomandazione, consiglio, soluzioni) incarna una posizione ambigua (complicata e non complessa, specialistica e non personalizzata, imperativa e non discorsiva). Ogni campo disciplinare è dominato dalla lingua prescrittiva. Non solo la prescrizione medica: ormai il medico non è più colui che ausculta, osserva, chiede, ma colui che prescrive farmaci o analisi specialistiche; la prescrizione psicologica è, ugualmente, sempre più richiesta ed elargita sotto forma di counseling, procedure, protocolli, strategie; per non parlare delle prescrizioni di igiene corporali, dietetiche: si prescrivono, si somministrano farmaci, comportamenti, pensieri, diete, relazioni. C’è lo specialista per ogni ambito dell’esistenza.[15]

Lingua fantasma

Siamo entrati nell’era del sottosviluppo linguistico. Inteso sia come imbalsamazione accademica e iper-specializzazione, sia come analfabetismo stilistico-grammaticale. La lingua è ridotta a strumento di comunicazione. Come tale è sempre inevitabilmente propaganda, promozione che si rivolge a consumatori, lettori, elettori, tele-ascoltatori, fruitori di piattaforme del mercato globale (tick-tock, facebook, instagram…). L’uso immediato, veloce, informativo, funzionale del linguaggio ha eroso la dignità della lingua (Millet, 2014). Non c’è più nessun piacere della lingua: trovare la parola giusta, la bella espressione, è divenuto inutile retaggio di un tempo andato. L’eccessiva semplificazione riduce il linguaggio a comunicazione, passaggio di informazioni, efficacia interlocutoria senza sfumature di colori, di allusioni, evocazioni, risonanze, digressioni…. Erosione della frase, del periodo, a vantaggio di un sillabare balbettante addomesticato. Povertà sintattica, semantica, lessicale, culturale favorita da metastasi informatiche, messaggistiche. Pezzi staccati di discorso, frammenti di frasi, che uccidono la totalità, l’organicità, la vitalità della lingua come stile. Nel modo di usare la lingua si esplicita il rifiuto di ogni principio di continuità, di verticalità, di profondità, di cultura. Liberata dalla sua storia e dagli strati che la appesantiscono, la lingua diventa leggera, superficiale, senza profondità. Una lingua fantasma. Bisognerebbe prendere coraggio per dire l’orrore di questa orizzontalità, ovvero del surrogato, dell’indifferente, della funzionalità, della velocità.

Lingua senza tempo

La cancellazione del tempo è un effetto di questa orizzontalità. Non c’è tempo per interrogare e confrontarsi con le diverse temporalità che costituiscono la vita umana. E non parlo della vita vista nei suoi diversi cicli vitali, parlo delle diverse temporalità che ci abitano contemporaneamente: tempo dell’orologio, dell’azione, ma anche tempo del sentire, del desiderio, tempo interiore, tempo perduto, tempo d’evasione, tempo invertebrato dell’attesa, tempo della solitudine, del silenzio. Quale lingua oggi potrebbe dar conto di queste diverse temporalità? Non c’è tempo per la complessità, per un dialogo vero. Tutto è preso nella velocità e nell’orizzontalità. «L’orizzontalità non è solamente ciò che risulta dal crollo di un mondo certamente antico e che si poteva definire verticale; l’orizzontalità di cui parlo è il luogo, privilegiato e infinitamente prevedibile,  della comunicazione generalizzata, dello scambio perpetuo, della trasparenza assoluta, della sorveglianza panoptica e dell’autoesposizione all’interno di un mondo in cui il dialogo è in realtà scomparso insieme con il valore, la critica, il gusto, la dialettica, il dialogo – da quello platonico al cosiddetto dialogo tra i popoli, vale a dire la cultura, che altro non fa, oggi, se non prestare parole all’ideologia della meticciazione globale o del placebo politico: la globalizzazione come crollo della reciprocità nel fantasma di inclusività assoluta, nella stessa maniera in cui la comunicazione è la modalità di esistenza falsificata dello scambio; perché appunto non si scambia nulla, non si comunica nulla nel mondo orizzontale […]. È questa la natura diabolica del capitalismo globalizzato che ci si para davanti col nome di Cultura (o di Spettacolo, Consumo, Era del visivo, Impero dei beni, Mondo liquido, o anche Democrazia) e che è la negazione stessa dell’Altro. […] Il capitalismo è la degradazione infinita dell’Altro» (Millet, 57-58). Il capitalismo mercantile ci presenta tanti altri che annullano l’idea stessa di Altro. Questi altri sono ridotti a numero, a statistica, a incidenza. Nel mondo orizzontale, con le sue infinite metamorfosi e con l’innumerevole altro, l’identità è un oggetto continuamente fluttuante.

Lingua disonesta

La manipolazione e la violenza si è esercitata attraverso la lingua, prima e più che con la forza. Le strutture del discorso rivelano questo potere. Uno studio di Lombardi Vallauri (2014) ha voluto identificare le modalità di quest’uso della lingua da parte del potere. Si è occupato delle strategie linguistiche della persuasione che sfruttano soprattutto i contenuti impliciti. Utilizza esempi di pubblicità commerciali e di discorsi politici in cui si fa passare per vero un contenuto falso. Passa al vaglio diversi tipi di discorso: persuasivo, prescrittivo, suggestivo, impositivo… Discorsi utilizzati nel campo politico, educativo, disciplinare. L’uso pervasivo di contenuti impliciti nel discorso non si limita a indurre un contenuto nella mente dei destinatari, ma ridefinisce il senso permanente di una parola, di un significato, del linguaggio stesso. Spesso l’uso di parole straniere o acronimi evoca il prestigio e l’autorevolezza. La scienza medico psicologica fa ampio abuso di tale strategia. Altro esempio di implicito è la scelta del tema-problema. Spesso l’effetto agenda è omesso: chi sceglie di cosa parlare? Quali parametri scegliere e a quali dare maggior peso? Se si stabilisce che una scuola è migliore di un’altra, come è stata costruita quella classifica? Come sono stati scelti i criteri di valutazione? È più importante il tasso di occupazione che una scuola promuove oppure il grado di coinvolgimento e cooperazione? È più importante il numero delle offerte extracurriculari o la qualità e l’approfondimento degli insegnamenti? Prendere in considerazione diversi criteri ed esplicitarli vuol dire parlare dell’idea di educazione, degli assiomi pedagogici impliciti. Su questo sarebbe possibile e utile confrontarsi. Invece tutto questo è cancellato dall’aggettivo “migliore”, nella cui vaghezza ognuno proietta un principio di autorità scientifico.

Lingua psicoanalitica

Lacan ha individuato diversi tipi di discorso che caratterizzano la diversa posizione e il diverso scopo di chi parla: il discorso dell’analista, dell’isterica, del padrone, dell’università, del capitalista. Ovviamente il discorso del padrone, quello del capitalista, quello dell’università (e della scienza) si appellano a principi di autorità: lo dice il potere (economico, istituzionale, religioso), lo dice il sapere e la scienza.  Il discorso dell’isterica e quello dell’analista sono tutt’altro. L’analista non mette in gioco il suo sapere per convincere, persuadere, prescrivere, imporre o insegnare alcunché. Se lo facesse diventerebbe un istruttore, una guida, un coach, o peggio un direttore di anime. In tal modo la clinica scadrebbe in educazione e l’educazione in normalizzazione: l’adattamento alla realtà, il buon uso dell’intelligenza, delle emozioni, del corpo, del comportamento.  Per questo, Lacan dice che «Il sapere è un’invenzione dei pedagoghi» (2019, 196). Non c’è nulla che giustificherebbe tale posizione, nemmeno volere il bene del soggetto, poiché «l’educazione più aberrante non ha mai avuto altro motivo che il bene del soggetto»  (1974, 615). Ogni forma di pedagogia o di psicoterapia che tendesse alla socializzazione, all’adattamento, all’empowerment «non potrà evitare né l’eugenismo né la segregazione politica dell’anomalia, del diverso. Ma allora, qual è il fine dell’analisi al di là della terapia?» (1974, 858).

La psicoanalisi non può mirare all’ecumenismo, all’armonia, all’accordo universale. Non c’è accordo né razionale, né naturale, non c’è sviluppo, crescita, garantita da stadi, fasi, apprendimenti progressivi. Per il fatto stesso di nascere immerso nel linguaggio, in quanto essere parlante, essere parlato, il cucciolo umano è marcato da una sfasatura rispetto a qualsiasi programma genetico, istintuale, naturale. «Da qui si dipanano due vie contraddittorie fra loro. La prima è quella di una pedagogia correttiva, per esprimersi come Lacan, nella quale si tratta di riportare il soggetto con la persuasione [l’addestramento, l’insegnamento, l’esortazione, l’empatia, la seduzione, l’autorevolezza, le buone maniere] sui binari che lo conducono a ciò che la società si aspetta da lui: il lavoro, l’inserimento nel legame sociale, ossia la famiglia e alla fine la riproduzione» (Miller J.-A., 155). In questo caso la psicoanalisi si ridurrebbe a dispositivo di ingegneria sociale, strumento di normalizzazione, assoggettamento, di integrazione sociale. Una agenzia per far sì che gli obesi diventino magri, i poveri benestanti, i violenti pacifici, gli omosessuali un po’ più etero, ecc. Insomma, la psicoanalisi applicata alla terapeutica, così intesa, non è altro che una “psicoterapia autoritaria”.

La psicoanalisi non è un atto educativo, non vuole ottenere qualcosa di prefissato. «L’atto analitico non consiste nel fare qualcosa, ma nell’autorizzare il fare che è quello del soggetto; nessuna morale, nessuna prescrizione, nessun insegnamento, solo liberare la parola del soggetto da ciò che la costringe, affinché essa possa andare a ruota libera. E allora si constata che la parola a ruota libera fa tornare dei ricordi, che riporta nel presente il passato, e a partire da lì disegna un avvenire. […] Il desiderio dell’analista non è quello di rendere conformi, di farvi del bene o di guarirvi. Il desiderio dell’analista è quello di ottenere la singolarità del vostro essere, ottenere che voi stessi siate capaci di circoscrivere, di isolare ciò che vi differenzia come tale, di assumerlo, di dire: ‘Io sono questo, questo che non è buono, che non è come gli altri, che io non approvo, ma è questo’ […] Il desiderio dell’analista, il desiderio di ottenere la differenza assoluta non ha niente a che vedere con la purezza, perché questa differenza non è mai pura» (Miller J.-A., 156-7).

La differenza assoluta non ha niente a che fare con la normalità e con l’adattamento, non ha a che fare neppure con la maturità o la crescita sana, non a che fare col benessere. Non c’è un universale della salute, della felicità, dell’armonia. Ogni epoca e ogni società produce la sua immagine di salute, felicità, benessere. Solo nel sintomo, nella malattia c’è la verità dell’uomo, come ci ha insegnato Freud. L’idea di armonia che presiede l’idea di salute mette sulla strada dell’igiene. L’igiene si presenta con un sapere che concerne la salute, un sapere prescrittivo che indica come proteggerla, assicurarla, rinforzarla. Non a caso ci si è accorti, un po’ tardi, che l’igiene mentale faceva parte di un discorso del potere, di un dispositivo sanitario imperativo. L’igienista si impegna a dirigere una popolazione. Egli non ha a che fare con degli individui. Ha che fare con categorie, protocolli, ricerche epidemiologiche, salute pubblica, psicologia della salute. Salute pubblica e salute soggettiva non sono sulla stessa linea. Il DSM testimonia di questa scelta igienista (Miller J.-A., 183). C’è il soggetto e c’è la società. La psicoanalisi è sempre dalla parte del soggetto. Una psicoanalisi non consiste nell’educare il paziente a riconoscere la realtà come il modello a cui adeguare la propria maturazione, la crescita. La psicoanalisi cerca di far sì che il soggetto attraversi lo schermo della realtà, per raggiungere qualcosa che è più vicino alla sua singolarità, al suo modo di tenere vivo il desiderio.

Ecco perché, il discorso analitico, a differenza degli altri discorsi, esclude ogni forma di dominio.

Per concludere

Cos’è la lingua dopo la pedagogia nera, dopo il Terzo Reich, dopo le degradazioni prescrittive, impositive, persuasive? Dobbiamo concludere con Adorno che «tutta la cultura dopo Auschwitz è spazzatura», [16] che nessun discorso sarà più possibile? Per Adorno ciò che profondamente e irrimediabilmente Auschwitz ha distrutto è il patto con la lingua, poiché ha fatto emergere l’impotenza a nominare le radici del male.

L’attuale ignoranza e disinteresse per la lingua sembra confermare la rottura di quel patto, la lingua riprodurrebbe solo quella spazzatura evocata da Adorno. Il tentativo della psicoanalisi, forse, è da mettere in relazione con questo scacco. Lacan ha parlato di una “etica del ben-dire” proprio in questo senso: la psicoanalisi ricostituirebbe il patto con la lingua, con la propria parola, risvegliando la possibilità di nominare le radici della propria sofferenza. Questo vuol dire che la lingua non è uno strumento di comunicazione, un modo per scambiare informazioni. È, prima di tutto, un modo per implicarsi nella vita, un modo per trovare le parole del proprio male di vivere e del proprio piacere di vivere. Un modo per rinnovare il patto, il legame con l’altro.

MICHELE CAVALLO 

testo pubblicato in INTERVENTI EDUCATIVI, Anno IX • n. 1 • gennaio-marzo 2023

NOTE

[1] È stata Katharina Rutschky a dare il nome di pedagogia nera a questi metodi educativi.  Formula ripresa da Alice Miller qualche anno dopo. Michael Haneke con il film Il nastro bianco (2009), ne ha dato una rappresentazione esemplare. Già in un testo del 1973 Morton Schatzman metteva al centro di La famiglia che uccide il caso Schreber per argomentare gli effetti devastanti di questi principi pedagogici.

[2] Kant lo sapeva e aveva voluto lasciare fuori dall’etica ogni sentimento, ogni desiderio, tacciandoli di “patologico”. Ma è l’Illuminismo stesso a farlo rientrare dalla finestra con Sade, facendone ironicamente la legge morale universale. Sarà compito della psicoanalisi raccogliere la sfida e farne qualcos’altro di questo benedetto godimento mortifero. Si tratta sempre e ovunque di “civilizzare” il godimento (v. Rutschky, 193) e quindi ogni educatore o genitore, ogni società dovrà in qualche modo favorire questa “civilizzazione”, ma favorirla non vuol dire goderne. Si tratta, per la psicoanalisi, di sostenere il soggetto nella ricerca del suo modo di simbolizzare, di annodare, di tracciare i percorsi del godimento. In ciò l’analista non impone e nemmeno propone la sua volontà, non esercita il potere di… e non gode di alcun potere sul soggetto.

[3] Si esprime in una coazione all’educare: «irrazionalità quale centro inesplorato dell’educazione» (Rutschky, 184).

[4] La “pedagogia nera” sostiene un modello educativo in cui la violenza e le punizioni sono legittime: afferma che il bambino è, tendenzialmente, portato ad assumere abitudini “viziose” (cattive, amorali, antisociali) laddove il genitore, o tutore, non intervenga correggendolo e reprimendo le sue naturali tendenze.

[5] La causa dell’unità nazionale aveva acceso l’entusiasmo dei giovani, al punto che nel raduno delle associazioni studentesche del 1817, diedero alle fiamme i libri stranieri che avevano corrotto l’autentica cultura del Volk.

[6] Su cos’altro a tutt’oggi si poggia il termine ri-abilitazione se non sull’idea di restituire una abilità, una condotta sociale condivisibile, uno standard?

[7] Questa normalità non è meno spaventosa delle atrocità dei regimi totalitari, poiché implica una deresponsabilizzazione di chi commette crimini e non si accorge, non sente di fare del male (H. Arendt, La banalità del male)

[8] La scuola è diventata serva di due padroni: del sapere tecno-scientifico e dell’economia neo-liberista. Sul piano organizzativo si è adeguata alle logiche della crescente privatizzazione e aziendalizzazione. Anche le teorie pedagogiche si sono adeguate al volere dei due padroni. Ad esempio, la celebrazione della “meritocrazia” ha trovato sempre più sostenitori nel discorso pedagogico, d’altronde nelle ideologie di razza, merito, abilità, competenza, maturità, adattamento, valutazione, come non vedere una certa continuità? Così, sullo sfondo del pensiero economico neoliberale, tra anni Sessanta e anni Settanta, iniziano a delinearsi tre pilastri concettuali che sorreggono, in ambito educativo, la struttura dell’edificio meritocratico: il “capitale umano”, la “didattica delle competenze” e la “valutazione standardizzata delle performance”. L’idea che l’educazione abbia un fondamentale valore economico per il sistema delle imprese è l’assunto fondamentale della teoria del “capitale umano”: abilità, conoscenze, attitudini degli individui possono incrementare il profitto privato. È quindi necessario trovare standard oggettivi di misurazione dell’efficacia dei sistemi educativi e formativi per rendere più efficiente possibile la valorizzazione che avviene in essi del “capitale umano”. Funzionale a questo scopo è l’introduzione della “didattica delle competenze”, il cui scopo è trasformare i sistemi di istruzione nazionali in strumenti al servizio della competitività economica. Non mancano certo studi e ricerche scientifiche per dare manforte!

[9] Il dispositivo automatizza e desoggettiva il potere, che diviene una entità astratta, meccanica, burocratica, non identificabile, diffusa, invisibile, permanente.

[10] Klemperer sottolinea questo aspetto riportando le parole di un commerciante con cui sta dialogando: «“L’ho sentito parlare a Monaco. Nessuno gli resisteva, nemmeno io. Non si può resistergli”. Gli chiesi in cosa consistesse questa impossibilità. “Ah, non lo so, ma non si può resistergli”, mi rispose, pronto e irremovibile» (77).

[11] Un altro romanzo distopico pubblicato nel 1958 da Michael Young, The Rise of Meritocracy (L’avvento della meritocrazia), mostra un mondo dominato da una lingua epurata da ogni sfumatura.

[12] L’algoritmo è un concetto fondamentale dell’informatica, anzitutto perché è alla base della nozione teorica di calcolabilità: un problema è calcolabile quando è risolvibile mediante un algoritmo. Inoltre, l’algoritmo è un concetto cardine anche nella fase di programmazione dello sviluppo di un software: preso un problema da automatizzare, la programmazione costituisce essenzialmente la traduzione o codifica di un algoritmo per tale problema in programma, scritto in un certo linguaggio, che può essere quindi effettivamente eseguito da un calcolatore rappresentandone la logica di elaborazione.

[13] L’operazionismo è una dottrina filosofica, formulata dal fisico americano P.W. Bridgman (1882-1961), secondo la quale i concetti delle scienze sono costruiti a partire dall’insieme di operazioni effettuate sugli enti studiati (così il concetto di lunghezza è costruito sulla base di operazioni di misura della lunghezza). Il significato è la risultante delle concrete operazioni che si fanno per definire una cosa.

[14] Ecco perché, anche se un algoritmo può produrre poesie, racconti, immagini, quadri, musica… perfettamente verosimili a opere d’arte, non è interessante; ciò che fa di un oggetto un’opera è la sua origine, l’imprevedibilità delle ragioni, dei motivi, delle spinte che hanno portato a crearla. Se non c’è un motivo, un desiderio da supporre, niente interesse, niente opera.

[15] Forse, al momento, la psicoanalisi è l’unico sapere-prassi che si salva dalla prescrizione. Forse è per questo che la psicoanalisi non è divenuta psicosintesi. Non prescrive nessun dover essere, dover fare, dover sentire. Anzi, mira a mettere sotto la lente gli imperativi che dirigono la vita del paziente. La cura procede nell’analisi di queste istanze super-egoiche. Infatti, il Super-io, qualsiasi sia il suo imperativo, si incarna in una voce, una voce che grida “Devi!”, ogni discorso prescrittivo è un precipitato di questo Devi!

[16] «Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura […] ma anche che tutta la cultura dopo Auschwitz è spazzatura». T. W. Adorno, Metafisica, p.330.

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