Intervista psicoanalitica sulla Commedia di Dante
Maria Teresa Martuscelli
Intervistata da
Michele Cavallo
Amo Dante quasi quanto la Bibbia. È il mio cibo spirituale, il resto è riempitivo
James Joyce
Intervista realizzata il 29 gennaio 2021 in occasione delle serate della Segreteria di Roma della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi
D – Vorrei partire da una analogia scontata: il viaggio di Dante come percorso analitico. Le tre cantiche come tre condizioni rispetto alla sofferenza, al sintomo, al desiderio, all’amore.
In questa analogia Dante è il paziente e Virgilio l’analista (che lo guida nella prima fase).
L’inizio sembra davvero paradigmatico: Dante si ritrova in una selva oscura. Non sa cosa è successo, è sopraffatto dalla confusione, dallo smarrimento. Ma non è l’angoscia o la paura a far iniziare il viaggio.
L’incontro con le tre fiere (motivo di angoscia e paura in quanto possibili proiezioni delle sue pulsioni peccaminose) non è sufficiente a intraprendere il viaggio (analitico). È necessaria l‘entrata in scena di Virgilio, che lo distoglie dalle tre fiere indicandogli la via da fare: per varcare la soglia non basta l’impulso dettato dalla paura.
R – È vero, può sembrare superficiale l’accostamento viaggio dantesco-percorso analitico, ma mi sembra più che giustificato da una serie di passaggi assolutamente logici che il pellegrino fa nell’accedere alla consapevolezza di voler intraprendere un percorso del genere. Dante non sa come si ritrova nella selva oscura, ma sa che vuole uscirne. Comincia a incamminarsi verso una radura… ma incontra le tre fiere che, così come si presentano, sembrano allucinazioni, appaiono e scompaiono non si sa bene come (qualsiasi cosa le tre fiere rappresentino, e possono rappresentarne tante al di là della consueta, ma non necessariamente unica, identificazione della lince con la lussuria, del leone con la superbia e della lupa con l’avarizia). Sarà Virgilio a distoglierlo da queste “proiezioni”, dicendogli che così non risolverà nulla, tocca percorrere una strada completamente diversa: “A te convien tenere altro viaggio” (Inf, I, 91).
D – Mi sembra interessante l’entrata in scena di Virgilio come elemento decisivo per l’inizio del viaggio.
R – In effetti, i primi due Canti rappresentano i passi che portano alla “decisione”. L’apparizione stessa di Virgilio non è causata da una “chiamata” di Dante. Virgilio se ne stava per i fatti suoi nel Limbo, impegnato in dotte conversazioni con Aristotele, Socrate, Platone e tutti i grandi ingegni dell’antichità. Qualcosa ha causato il suo venir in aiuto di Dante. Una parte più profonda della psiche, non razionale e non puramente ideale, si è attivata per mettere in moto tutto ciò. La parte femminile. A causare il viaggio e la presenza di Virgilio è stata Beatrice.
D – Interessante, perché biograficamente pare che Dante abbia incontrato Beatrice due sole volte, la prima a nove anni dove tra loro c’è stato solo uno sguardo, e nove anni dopo incontrandosi per strada lei lo riconosce e lo saluta. Lo sguardo e la voce sono per noi due oggetti pulsionali fondamentali, oggetti-causa del desiderio.
R – Al di là del dato biografico, di fatto Beatrice evoca un’esperienza reale di Dante che ha a che fare con le sue pulsioni, col corpo, con quello che lo smuove in quanto essere parlante. Se non c’è questo sommovimento interiore l’amore non fa quello che deve fare: muovere, appunto. Amore vuol dire ciò che muove, ciò che fa uscire fuori da sé, ex-sistere. La realtà, l’universo stesso è animato da questo principio: “l’amor che muove il sole e l’altre stelle”.
D – Vorrei continuare con gli accostamenti. Anche Freud, nel testo che inaugura la psicoanalisi, usa Virgilio per iniziare il viaggio. A esergo di L’interpretazione dei sogni troviamo un verso dell’Eneide: “Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo”. Ma così come l’inferno di Dante è qualcosa di radicalmente nuovo rispetto a quello di Virgilio e di tutte le rappresentazioni precedenti, così l’inconscio di Freud irrompe come qualcosa di inedito. L’inferno di Dante (come l’Inconscio di Freud) non è caos, selva oscura. C’è una logica dei peccati, delle colpe, delle punizioni, dei contrappassi; c’è una topografia, una successione con scansioni precise.
R – Sicuramente, è questa la novità di Dante rispetto alle visioni degli inferi che hanno preceduto la Commedia, che presentano un inferno indifferenziato dove bruciano i dannati, ecc.
Dante crea una struttura molto più articolata e rigorosa, tuttavia rimane sempre consapevole della fondamentale inesplicabilità del concetto del male, in quanto contraddizione assoluta e, inoltre, della irriducibilità del reale alla parola o all’immagine; c’è un fondo a cui la parola non arriva. Non tutto si riduce alla struttura, c’è un residuo del reale che contraddice qualsiasi ordine. Dante continuamente porta in campo le vite singolari dei personaggi che rompono lo schematismo. L’inferno è questo fuori-misura.
D – Alludi all’eccesso? C’è un più inesplicabile, irriducibile. Vediamo qui personaggi confrontati con un fuori-misura, vediamo le passioni umane mostrate nella loro ferocia, ostinazione, ripetitività.
R – L’inferno è il luogo delle potenzialità andate a male. Potenzialità non elaborate nella giusta direzione. Mi sembra che non ci sia tanto uno sguardo moralistico da parte di Dante, mi sembra che guardi ai peccatori come a una sorta di forza irredenta; il peccato in sé è il punto di confluenza della massima energia, delle spinte pulsionali del peccatore, ma in Paradiso quel punto sarà la massima espressione del desiderio nel beato. Di solito pensiamo alla Commedia come tre cantiche governate da tre logiche diverse, dal punto di vista della topografia e anche della gerarchia, del modo di categorizzare il peccato. In realtà la griglia è unica. Un’unica griglia consente di leggere Inf, Purg, e Par, ed è la griglia che è perfettamente illustrata nel Paradiso, il settenario planetario (quelle forze che i beati esprimono nel loro massimo splendore). Ad esempio, è evidente che c’è una connessione tra i lussuriosi infernali, quelli purgatoriali e gli spiriti amanti del cielo di Venere, così come c’è questa connessione, molto esplicita, tra i beati del cielo di Marte, gli iracondi del Purgatorio e quelli dell’Inferno.
D – Quindi, non è il peccato in sé che qualifica lo stare nell’Inferno, nel Purgatorio o in Paradiso.
R – Esatto, ogni dannato soffre in relazione alla modalità con cui ha messo in atto il proprio desiderio. Ecco perché troviamo diversamente collocati lussuriosi, pederasti, sodomiti.
I lussuriosi sono i primi peccatori che Dante incontra all’inferno, quindi, in un certo senso, coloro che hanno commesso un peccato meno grave – e anche in questo Dante si discosta abbastanza da quelle che sono le idee del suo tempo. I sodomiti e pederasti li incontriamo molto più avanti, nel terzo girone del settimo cerchio, tra i violenti contro natura, ma qui “natura” non equivale al significato che noi siamo abituati a dare a questo termine. Per Dante natura è l’ordine razionale impresso da Dio alla creazione. Non è inteso nella sua opposizione a cultura (come invece è per noi). Per Dante la cultura è un aspetto della natura, intesa come quell’ordine razionale che l’uomo può mettere in atto grazie alla ragione. Quindi, peccato contro natura si riferisce a ciò che li fa rimanere in uno stato di sofferenza costante. L’inferno è il luogo della sofferenza che i tuoi comportamenti ti provocano e di cui non riesci ad assumerti la responsabilità. I sodomiti e pederasti qui sono “violenti contro natura”, hanno agito in modo violento, hanno assecondato le loro pulsioni cadendo nell’eccesso, ma soprattutto perché hanno reiterato quel comportamento. Al tempo di Dante la sodomia era considerata peccato mortale, peccato difficilmente perdonabile, almeno sul piano teorico, intendo dire sul piano delle sanzioni ad essa collegate, sia in ambito civile che religioso (anche se, va detto, la realtà poi era vissuta in modo differente). Invece Dante li colloca anche in Purgatorio e li mette insieme ai lussuriosi: dunque forte attenuazione del giudizio morale. Nel Purg. non si parla di violenti contro natura, ma semplicemente di coloro che hanno ceduto a una loro pulsione in maniera incontinente.
D – Questo aspetto non è molto chiaro. È vero che nell’Inf Virgilio parla, a questo proposito, di peccati di incontinenza. Ma allora qual è la differenza tra i sodomiti e i lussuriosi delll’Inf e quelli del Purg.?
R – Dante non è mai scontato. Nel Canto XI Virgilio nella sua lectio magistralis sull’ordinamento dell’Inferno parla di incontinenza, senza spiegare che cos’è. Rispondendo a una domanda di Dante dice, anche piuttosto spazientito perché il suo discepolo sembra proprio a digiuno dei fondamentali: “Non ti rimembra di quelle parole/ con le quai la tua Etica (ovvero l’Etica di Aristotele) pertratta/ le tre disposizion che Dio non vuole?/ Incontinenza, Malizia e la Matta/ Bestialitate, e come Incontinenza/ men Dio offende e men biasimo accatta?”(XI, 79-84). Dunque, Aristotele ha classificato le azioni eticamente riprovevoli in tre categorie, delle quali la prima è la meno grave. Tuttavia Virgilio, che ha specificato bene cosa si debba intendere per Violenza e Frode, sull’incontinenza non approfondisce. Incontinenza ha a che fare con il non-contenere, non stare dentro i propri limiti; infatti “contento” non vuol dire felice, contento è colui che sta contenuto nei propri limiti. Sembrerebbe esclusivamente una questione di misura. Quando però nel Purgatorio parlerà degli stessi peccati farà una considerazione molto più interessante, perché dirà riferendosi a loro: “altro ben è che non fa l’uom felice; non è felicità, non è la buona essenza, d’ogni ben frutto e radice” (XVII, 133-135). Passa dalla contentezza, alla felicità, passa dal criterio in cui le pulsioni devono essere vissute in modo temperato, con giusta misura, a un criterio completamente diverso: questi desideri mi portano o no alla felicità? La felicità non ha a che fare con la contentezza, con la temperanza. Se riesco a trattenere, a misurare il desiderio della lussuria, dell’avarizia, della gola…. sono felice? Per quello che Dante scrive, per le parole che usa, per le immagini che ci propone in Purg, si capisce che non è un problema di misura. Nel caso dei lussuriosi l’immagine potentissima, il fuoco nel quale questi penitenti stanno, non indica una punizione, bensì la capacità di sostenere l’intensità di quel desiderio che arde. È questa capacità a consentire ai penitenti lussuriosi di attraversare il muro di fuoco. Mentre nell’Inf i lussuriosi sono totalmente identificati con le loro pulsioni, qui i lussuriosi ne sostengono l’intensità, non c’è, quindi, un raffreddamento del desiderio. Lo stesso Dante dovrà attraversare quel fuoco e dopo lo ritroviamo più ardente d’amore di prima.
Non è nella negazione del desiderio o nel suo raffreddamento che l’essere umano progredisce nel suo cammino, ma, al contrario, attraverso la capacità di gestirlo, di sostenerlo, di soggettivarlo nella sua intensità. In Par. abbiamo spiriti che sono tutti fiamme ardenti, che bruciano di desiderio, di uscire da sé e non parlano che di questo quando incontrano il pellegrino Dante.
Tornando al Purg., è il luogo in cui si mette in atto una risalita alle origini del peccato. Il penitente è impegnato nel lavoro di scavo che lo porta a identificare quella pulsione che lo ha spinto a peccare. I penitenti non parlano dei loro peccati ma di ciò che li ha portati al peccato, dell’impulso che lo ha determinato.
Qui nel Purg non si tratta di mostrare la fenomenologia del peccato, di darcene una descrizione come accade in Inf, ma di mostrare i penitenti che parlano dell’origine, della causa della loro colpa. Si passa dalla pura sofferenza infernale al riconoscimento del godimento che se ne ricava.
E da questo punto di vista è molto chiaro agli studiosi il perché omosessuali ed eterosessuali stiano nella stessa cornice, non è diverso l’impulso che ha portato in entrambi i casi ad esprimersi in maniera eccessiva, ma il punto non è quello.
Io credo che in Dante ci sia l’idea molto forte di una sessualità deviata quando sfocia nella violenza. I penitenti gridano “Sodoma e Gomorra”, facendo riferimento alle due città che nella Bibbia sono emblema di violenza e di degrado morale (essendo i suoi abitanti violenti tra di loro e nei confronti degli ospiti: non sono ospitali, vogliono abusare sessualmente di loro, ecc.: è Ezechiele che ce lo racconta).
D – La violenza. Mi sembra questo l’aspetto predominante delle passioni infernali, il fatto che siano godimenti agìti compulsivamente. Nell’inferno c’è pura ripetizione, non c’è interpretazione del proprio male da parte del dannato, non c’è soggettivazione (il dannato non si implica nella sofferenza dicendo: io c’entro, questo mi riguarda intimamente). Non c’è assunzione di responsabilità.
R – Beh, ad esempio Francesca (Canto V) parla dell’effetto travolgente della passione amoroso, ma non si implica. Pier delle Vigne (Canto XIII) sposta l’attenzione sugli altri che sono stati invidiosi di lui. Ugolino (Canto XXXIII) parla di Ruggeri ma non del suo peccato. I dannati vogliono farsi passare per vittime e questo non innesca nessuna rielaborazione, nessun movimento. Non c’è altra via che la ripetizione. Il cerchio è la figura infernale (l’eterno ritorno del medesimo). Dai cerchi dell’inferno non si può uscire.
Il Purgatorio è il luogo dell’assunzione di responsabilità, e anche la ‘palestra’, il luogo in cui si impara a gestire l’eccesso e a farlo proprio, ovvero a trasformarlo.
Manfredi, ad esempio, dice: “orribil furon li peccati miei” (III, 121). Il male qui diviene il punto di leva. Non è un volgere le spalle e lasciarsi dietro la sofferenza, si tratta di usarla per capovolgere il modo di vedere e sentire le cose. Deve essere una scala per il processo di trasformazione: vedi Inf. XXXIV: dall’Inferno non si esce rifacendo la strada all’indietro, ma usando il corpo mostruoso di Lucifero per entrare nell’altro emisfero terrestre , quello in cui è collocato il Purgatorio, facendo una “conversione”. Virgilio così parla a Dante: “Attienti ben, ché per cotali scale [ovvero aggrappandosi al corpo di Lucifero…] conviensi dipartir da tanto male” (Inf XXXIV, vv. 82-84). Per passare al Purg è necessario un capovolgimento. Se non comprendiamo questo capovolgimento di prospettiva, il Purg viene inteso in continuità e diviene , erroneamente, una sorta di Inferno light. Invece è un mondo capovolto topologicamente
D – C’è una logica nel passaggio da una cantica all’altra, da una dimensione all’altra. Il pellegrino-analizzante Dante fa esperienza di questa trasmutazione. Ci hai parlato del diverso statuto del fuoco, dell’ardore, dell’intensità del desiderio. Del diverso statuto del peccato e del godimento.
Nella terza cantica si assiste a una trasmutazione della percezione, del modo di vedere e comprendere, del modo di godere e di amare. Per rendere questa trasmutazione Dante deve inventare una lingua nuova, una parola che non è solo testimonianza, descrizione, ombra delle cose. Una parola che sia essa stessa creatrice di mondo. La poesia è al di là del significar. “Trasumanar significar per verba/non si porìa però…” (I, vv. 70-73).
Se la poesia è questo estremo tentativo, perché i poeti dell’amor cortese, Guinizzelli, Arnaut Daniel li mette in Purgatorio?
R – I poeti dell’amor cortese sono l’esempio tipico del peccato purgatoriale, hanno sbagliato strada, il punto di partenza era corretto: mettere l’amore al centro della poesia, ovvero al centro dell’esistenza dell’individuo. La direzione, però, è sbagliata perché quell’amore si è innanzitutto fissato su una donna intesa come puro ideale, disincarnato; invece Beatrice è l’incarnazione reale dell’oggetto del desiderio; affinché l’amore sia in grado di “muovere”, quell’oggetto deve essere incarnato. L’amore ha portato questi poeti a concepire un tipo di espressione (letteraria) estremamente rarefatta e destinata a pochi. Dante non ha seguito quella strada, a partire da Beatrice non si è fermato a scrivere liriche stilnovistiche, ha scritto la Commedia, ha intrapreso un viaggio. Guinizzelli, Arnaut Daniel, si sono arenati o hanno deviato dal percorso. Ecco perché in Par. troviamo un personaggio come Cunizza che parla di un amore per nulla disincarnato. Mostra che la questione non è limitarsi nella passione amorosa, ma nell’assumersi fino in fondo la responsabilità del proprio sentire e sostenerlo nella sua intensità. Cunizza è una nobildonna che ha avuto una vita molto avventurosa, si è vissuta serenamente le sue passioni amorose; dice pochissimo di sé stessa, ma le poche parole che dice sono inequivocabili: “ma lietamente a me medesma indulgo/ la cagion di mia sorte e non mi noia /che parrìa fosse forte al vostro vulgo”. Cioè, guardo con indulgenza a ciò che ha fatto sì che io sia qui (cioè in Paradiso), la cagion di mia sorte non mi crea nessun problema, ma voi che avete una mente rozza non potete capire quello che sto dicendo, voi che siete attaccati ai pregiudizi moralistici, non mi potete capire. L’intensità del desiderio, la libertà sessuale non sono necessariamente infernali, anzi!
D – È come se in lei potessimo vedere il superamento nell’amore di quella divisione soggettiva tra volontà e desiderio, tra velle e disìo.
R – Non è a caso che la Commedia si chiude con la terzina: “ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,/sì come rota ch’igualmente è mossa,/l’amor che move il sole e l’altre stelle”.