Lacan e Dante

Un dialogo

MARIA TERESA MARTUSCELLI   &   MICHELE CAVALLO

Penso che se Dante tornasse,

si troverebbe a proprio agio nel mio seminario

(Lacan, Seminario XII)

Articolo pubblicato su La Psicoanalisi, n. 69, Astrolabio, Roma, 2021.

Illustrazioni della Divina Commedia di Salador Dalì

Avevo pensato di intitolare questo nostro dialogo Il Lacan di Dante. Immaginarli contemporanei, spostando non Dante al Seminario, ma Lacan nella Commedia. Una volta ci divertiremo a farlo! Per ora nessuna terzina di Dante su Lacan.

Dante e l’amor cortese

MC

I primi e più estesi riferimenti di Lacan a Dante sono a proposito dell’amor cortese. Nel Seminario VII dedicato all’etica,[1] Lacan fa di Beatrice della Vita Nova l’esempio di Dama, oggetto di desidero agognato e tenuto distante. Ma perché, a proposito dell’etica, Lacan introduce il tema dell’amor cortese?

La spinta al bene, al male, il peccato, la virtù, si traducono in termini psicoanalitici in: la pulsione e le vie della sua trasformazione. Lacan in questo seminario è intento a mostrare lo scarto del concetto di pulsione da quanto si trascina ancora dietro di “naturale, “istintuale”. Ne mette in luce la sua faccia significante. La soddisfazione pulsionale non è soggetta alla meta sessuale “naturale”, e la sublimazione, nelle sue diverse forme, lo esemplifica.[2]  La pulsione può soddisfarsi al di fuori della meta sessuale. Quindi, nessuna etica può tracciare una linea retta che va dal bisogno, alla spinta, all’oggetto, alla meta. Lacan recupera la tradizione dell’amor cortese per mostrare l’essenziale del processo di sublimazione e il paradosso che fa emergere, vale a dire che ogni attività di sublimazione realizza una soddisfazione: non c’è compromesso o rimozione, cancellazione del godimento. In un modo o nell’altro la pulsione si soddisfa sempre. Spesso il godimento è ottenuto per vie apparentemente contrarie ad esso, ad esempio il sintomo. La frase “il soggetto è sempre felice”, coglie questo paradosso.

Il poeta dell’amor cortese si impedisce di possedere e di godere la Dama, e proprio per questo gode nel portare il suo desiderio a una intensità inaudita. Non a caso, Lacan identifica le principali caratteristiche di questo oggetto d’amore nella sua inaccessibilità, nella distanza e nell’impersonalità: “l’oggetto, in particolare qui l’oggetto femminile, si introduce attraverso la porta assai singolare della privazione, dell’inaccessibilità”. Inoltre, questo oggetto, la Dama, “si presenta con caratteri spersonalizzati, tanto che certi autori hanno potuto osservare come tutti sembrino rivolgersi alla stessa persona” (Sem. VII, p. 190). In questo ridurre un essere a puro significante, il poeta cortese mostra come sotto ogni meta, sessuale o no, è a das Ding che la pulsione mira e non all’oggetto che sta lì davanti. “Questo oggetto, appunto, non è la Cosa, quella che sta al centro dell’economia libidica. E la formula più generale che vi do della sublimazione è questa: essa eleva un oggetto […] alla dignità della Cosa” (ivi, p. 141). In questo, l’amor cortese è in effetti il paradigma della sublimazione. Molti anni dopo, Lacan riprende il tema nel Seminario XX sottolineando la straordinarietà di questa “invenzione”:

“Nell’Etica della psicoanalisi non ho esitato a riferirmi all’amor cortese. Che cos’è? È un modo assolutamente raffinato di supplire all’assenza di rapporto sessuale facendo finta che siamo noi a ostacolarlo. È veramente la cosa più formidabile che sia mai stata tentata.” (pp. 65-66) E poco oltre: “L’amor cortese ha brillato nella storia come una meteora, dopodiché si è vista tornare tutta la paccottiglia di un preteso rinascimento del vecchiume classico. L’amor cortese è rimasto enigmatico” (ivi, p. 80).

MTM

È vero, la Beatrice della Vita nova può corrispondere a questo modello della dama dell’amor cortese, l’occasione stessa dell’incontro e ciò che innesca, riproduce quasi uno stilema. Questa bambina, incontrata a una festa, viene elevata alla dignità della Cosa, a qualcosa che la trascende completamente.

MC

Lacan nota che è bastato un “batter di palpebre” di Beatrice a muoverlo all’opera di una vita:  “Uno sguardo, quello di Beatrice, cioè tre volte niente, un batter di palpebre e il cascame squisito che ne risulta: ed ecco sorto quell’Altro che non dobbiamo identificare che al godimento di lei, che lui, Dante, non può soddisfare, perché da questa e di quello egli non può avere che questo sguardo, questo oggetto, ma di cui egli enuncia che Dio la colma; ed è dalla bocca stessa di lei che egli ci provoca a riceverne assicurazione” (Televisione, p. 521).[3] Nella Vita nova troviamo diversi statuti di Beatrice come oggetto causa del desiderio. C’è il primo incontro in cui lo sguardo è causa. Quando, dopo nove anni, la reincontra per strada e lei lo saluta, sarà la voce l’oggetto-causa.

MTM

La vista è il primo e il più grande godimento concesso all’uomo, già in Aristotele. In Vita nova: “mi parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine” (p. 13).[4] Beatrice è causa di desiderio non solo per Dante, ma per tutto ciò che la circonda. Amore risiede nei suoi occhi e col suo sguardo si trasmette a ciò che ella guarda: “Ne li occhi porta la mia donna Amore,/per che si fa gentil ciò ch’ella mira” (ivi, p. 98). Dopo nove anni, la voce: “L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire alli miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato partio dalle genti, e ricorso al solingo luogo d’una mia camera, puosimi a pensare di questa cortesissima” (ivi, p. 13).

MC

Lo sguardo, la voce sono i punti di condensazione in cui Beatrice assume la funzione di causa. Mi sembra che nella VN troviamo un terzo punto, una terza scansione che farà di Beatrice causa: la sua morte.  Vedendo la sua donna che giace sul letto di morte:

Io diveniva nel dolore sì umile

Veggendo in lei tanta umiltà formata,

ch’io dicea: – Morte, assai dolce ti tegno:

tu dêi omai esser cosa gentile,

poi che tu sé nella mia donna stata,

e dêi aver pietate e non disdegno.

Vedi che si desideroso vegno

D’esser de’ tuoi, ch’io te somiglio in fede  (p. 118).

La morte di Beatrice lo spingerà a progettare un’opera nuova.

MTM

Sì, da un punto di vista realistico è incredibile, direi quasi inverosimile. Sono bastati due fugaci incontri e la sua morte a fare di lei un simbolo capace di spingerlo all’opera di una vita.

MC

Alcuni “segni” son bastati a fare di una donna la causa del desiderio. Sempre nel Seminario VII Lacan sottolinea l’atto di pura invenzione: “Ammettete che collocare in questo punto d’al di là una creatura come la donna è un’idea veramente incredibile […]. Se questa idea incredibile è potuta sorgere, quella di mettere la donna al posto dell’essere, ciò non la concerne in quanto donna, ma in quanto oggetto del desiderio […], l’essere al quale il desiderio si rivolge non è nient’altro che un essere di significante. Il carattere inumano dell’oggetto dell’amor cortese in effetti salta agli occhi” (pp. 272-3). Due anni dopo, nel Seminario IX,[5] Lacan riprenderà questo tema precisando il valore di medium dell’oggetto d’amore. Nel godimento il medium che permette di avvicinare la Cosa non può essere che un significante. Da qui questo strano aspetto che assume ai nostri occhi la dama nell’amor cortese. Non riusciamo a crederci, – dice Lacan – perché non possiamo più identificare fino a questo punto un essere vivente ad un significante, una persona che si chiama Beatrice alla saggezza e a quello che era per Dante l’insieme, la totalità del sapere (Lez del 14 marzo ‘62).

MTM

In questo rapporto col sapere Dante supera l’amor cortese, fa una traversata giungendo al di là. Non a caso la Vita nova si chiude con il progetto di dire di lei ciò che non fu mai detto ad alcuna: “E di venire a ciò io studio quanto posso” (p. 206). Si propone di scrivere qualcosa di completamente nuovo, in discontinuità con ciò che fino a quel momento è stato fatto. In effetti, la Commedia non è in continuità con l’amor cortese, c’è un taglio, e Beatrice stessa non è la stessa. La troviamo all’inizio nella Vita nova e la troviamo nel Paradiso della Commedia. Lei è il punto di partenza e il punto di arrivo. Ma non è la stessa.

MC

Mi sembra che Lacan abbia colto questa scansione e man mano nel corso dei Seminari si sia riferito al Dante che più risuonava con i concetti che andava elaborando. Il passaggio dall’amor cortese alla Commedia riflette il passaggio dal Sem VII al Sem XX (e XXI): dal desiderio-sublimazione all’Amore; dal corpo come immagine, Io, identità, al corpo come sostanza godente; dal godimento fallico e d’oggetto al godimento Altro; come ha sottolineato Di Ciaccia: “solo quando egli riuscirà a risolvere l’enigma della sessualità nell’amore e scoprire inoltre che non-tutto è sotto il segno del fallo, solo allora potrà parlare di un godimento Altro. E si passerà allora dall’insegnamento del seminario sull’Etica a quello di Ancora” (p. 261).[6]

Però, già nel Seminario VII, mi sembra che parli di Dante in modo particolare, rispetto ai poeti dell’amor cortese. Ecco un passo dove articola di nuovo la questione dell’oggetto medium e del sapere: “In questo campo poetico, l’oggetto femminile è svuotato di ogni sostanza reale. È questo che rende così facile successivamente a un qualche poeta metafisico, a un Dante per esempio, prendere una persona di cui si sa che è davvero esistita – ossia la piccola Beatrice di cui si era invaghito quando ella aveva nove anni, e che resta al centro della sua canzone dalla Vita nova fino alla Divina Commedia – e di farla equivalere alla filosofia, o addirittura in ultima analisi alla scienza sacra, e di lanciarle il suo appello in termini tanto più vicini al sensuale quanto più la suddetta persona è vicina all’allegorico. Non si parla mai d’amore in termini così crudi come quando la persona è trasformata in una funzione simbolica. Vediamo qui funzionare allo stato puro la molla del posto che occupa il punto di mira tendenziale nella sublimazione, che cioè quel che l’uomo chiede, quel che non può far altro che chiedere, è di essere privato di qualcosa di reale” (pp. 190-191). Ma, appunto, in questa privazione risiede la via etica dell’eros, via che apre all’amore per il sapere.  E qui risuona la via della psicoanalisi.

Il taglio della Commedia

MTM

Dalla Vita nova alla Commedia c’è un salto enorme. C’è tutta la distanza dai suoi maestri e amici dello stil novo e dell’amor cortese. La Commedia mette in scena una Beatrice nuova, un amore nuovo, una lingua nuova, una poesia nuova. Un inedito rapporto tra amore-sapere-scrittura. Mentre i poeti cortesi usano la scrittura per inventare questo oggetto del desiderio, dargli la forma più possibile agalmatica, e per farlo devono essere dei fini retori, dei cantori, dei funamboli del verso (la sestina permette uno svolgimento quasi discorsivo), quasi degli enigmisti; il Dante della Commedia usa la scrittura per creare la strada per toccare i diversi registri dell’esperienza (la terzina è un modo per scuotere, colpire).

MC

Tu insisti molto sul taglio che la Commedia fa, introducendo una lingua, una scrittura nuova e un diverso statuto dell’oggetto d’amore.

MTM

Un conto è la Vita nova, un conto è la Commedia. Basta dire che le poesie stilnovistiche sono destinate a pochi, scritte in una lingua aulica, ricercata, intellettualistica mentre la Commedia è destinata a molti e volta a cogliere tutti i registri dell’esperienza umana. Lì c’è un’aristocrazia dello spirito completamente capovolta nella Commedia. Cambia la concezione della scrittura, cambia il motivo per cui si sta al mondo. Nella sua produzione giovanile Dante ha perseguito quell’esperienza, ma nella Commedia intraprende una strada completamente diversa. Se prima Beatrice rappresenta colei che è stata capace con un solo batter di ciglio di aprire il cuore a inediti afflati, ora, nella Commedia, Beatrice è donna che parla, guida, insegna. Non è più immagine di donna angelicata. Ora è la cosa che orienta al reale. Qui Beatrice non è più impersonale oggetto del desiderio di Dante ma mezzo, veicolo. Oggetto che, alla fine del viaggio, si può lasciar cadere.

Dal primo giorno ch’i vidi il suo viso

in questa vita, infino in questa vista,

non m’è il seguire al mio cantar preciso;

ma or convien che mio seguir desista

più dietro a sua bellezza, poetando,

come all’ultimo suo ciascun artista (Par., XXX, vv. 28-33)

Se nell’amor cortese la donna è oggetto che muove il desiderio verso la scrittura, verso la ricerca delle parole che meglio riescono a dar forma al sentimento di vassallaggio, nella Commedia Beatrice non è la destinataria di belle canzoni d’amore, né l’ispiratrice di magnifici volteggi poetici, è il percorso di trasmutazione in atto. In questo senso la Commedia non è un’esperienza di sublimazione poetica. È, piuttosto, un’esperienza di “trasumanazione”.

MC

È interessante la trasformazione del concetto di amor cortese in Dante.

Potremmo dire che l’amor cortese = sublimazione (elevare l’oggetto alla dignità della Cosa), dove l’azione è sull’oggetto; invece la Commedia = trasumanazione (significar per verba non si poria), dove l’azione è sul soggetto. Non è espressione, è semmai il suo rovescio: “impressione”. Miller ha parlato di “corporizzazione”.[7]

Già nella Vita nova, quando Dante esplicita il progetto della Commedia, parla di Beatrice come colei che ha effetti sul suo corpo: i centri della testa (dei pensieri), del cuore (delle emozioni) e del ventre (degli umori) ne sono scossi. Beatrice mobilita quel principio femminile in grado di aprire un diverso sentire del corpo. Questa dimensione possiamo identificarla come il passo ulteriore che nella Commedia è il “riprendere corpo”.

MTM

Il Paradiso per Dante sarà completo quando la dimensione del corpo sarà integrata.

Nel canto XIV troviamo il tema della resurrezione dei corpi, i beati attendono di ricongiungersi al corpo. Quindi, il Paradiso non è il luogo dell’astrazione, della sublimazione, della rarefazione, della mentalizzazione e della stasi. La trasumanazione implica una intensificazione dei sensi, del sentire, dell’esperienza corporea, della fiamma che invece di consumare aumenta di intensità, potendo essere sopportata. Il percorso della Commedia ci conduce per mano in questa trasformazione. All’Inferno troviamo l’amor cortese in Francesca che parla dell’amore parafrasando Guinizzelli, parla dell’amore nato mimeticamente dal libro “Lancillotto e Ginevra” bestseller cortese dell’epoca, parla del loro bruciare in questa fiamma che li trascina. Ma il loro essere fiamma non è la pena, non è bruciare all’inferno in quanto peccatori, è piuttosto, al di là dell’interpretazione romantica, la rappresentazione dell’incapacità di sostenere quell’intensità, incapacità di stare nel fuoco senza essere annullati, consunti, trascinati.

Nel Purgatorio troviamo i poeti cortesi, anche loro nelle fiamme: Arnaut Daniel, Guinizzelli, non sono consunti dalle fiamme ma stanno imparando a stare in quell’intensità. Stanno imparando a stare nel fuoco, a stare nell’intensità del sentire dei loro corpi. [8]   I poeti dell’amor cortese sono l’esempio tipico del peccato purgatoriale: il punto di partenza era corretto (mettere l’amore al centro della poesia, ovvero al centro dell’esistenza dell’individuo), la direzione, però, è sbagliata perché quell’amore si è innanzitutto fissato su una donna intesa come puro ideale, disincarnato, spersonalizzato; li ha portati a concepire un tipo di espressione letteraria estremamente rarefatta e destinata a pochi. Dante non ha seguito quella strada. A partire da Beatrice, l’incarnazione reale dell’oggetto del desiderio in grado di “muovere”, non si è fermato a scrivere liriche stilnovistiche, ha scritto la Commedia, ha intrapreso un viaggio.

Nelle poesie dell’amor cortese tu trovi sempre una distanza e un’aura intorno alla donna agognata che ispira una serie di analogie, di giochi linguistici, di strategie compositive intellettualistiche. Non dimenticare che i grandi poeti come Arnaut Daniel, Giraud de Borneil, sono degli enigmisti della composizione, la sestina è talmente ragionata da un punto di vista della struttura che non lascia spazio a ciò che voi chiamate la lalangue, come invece accade in Dante. È il motivo per cui sono in Purgatorio, perché hanno avuto un’intuizione corretta ma è come se nel loro percorso si fossero arenati, incapaci di andare avanti, errando, girando intorno alla vera natura dell’esperienza a cui quell’intuizione allude. Ad esempio, prendiamo Cavalcanti, a livello dell’espressione poetica è forse più grande di Dante. I suoi versi spesso hanno una potenza che Dante non raggiunge. E quando Dante ha “rubato” li ha resi meno potenti: “e bianca neve scender senza venti” diventa “come di neve in alpe senza vento” (Inf, XIV, 30), è più bello Cavalcanti. O ancora: “chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira, che fa tremar di chiaritate l’are”. Detto questo, la poesia di Cavalcanti è un pensiero cristallino, depurato, grandioso, ma la poesia della Commedia è tutt’altro.

Insomma, Dante si lascia alle spalle i suoi amici, Cavalcanti, Guinizzelli, e i suoi riferimenti provenzali.

Oltre il linguaggio

MC

Forse nel passaggio risoluto al volgare, Dante costruisce una nuova lingua per cogliere più da vicino ciò che accade al corpo, ai circuiti del godimento e da qui cogliere la logica delle costruzioni discorsive. Lacan nel Seminario XII[9] riconosce che Dante prima di altri, introduce nel De vulgari eloquentia le questioni fondamentali della linguistica come scienza atta a indicare ciò che è proprio del soggetto. Egli ha mostrato – dice Lacan – il più vivo senso del carattere primario e primitivo del linguaggio, del linguaggio materno, opponendolo a tutto ciò che al suo tempo era il ricorso ostinato alla lingua dotta, il latino, e nel fare ciò antepone la logica al linguaggio. Il ricorso alla lingua materna, quella che parla spontaneamente il lattante e l’uomo del popolo, non impedisce a Dante di vedere l’importanza correlativa della lingua colta, è la grammatica primaria che gli importa ed è qui che non dubita di ritrovare la lingua pura (Lez. del 9  dic ’64). La formula di “lingua materna” è proprio in questo trattato che fa la sua comparsa, Dante la usa per riferirsi alla lingua del lattante e a quella del volgo, che, fatta di equivoci, onomatopee, omofonie… è in presa diretta con le espressioni primarie del corpo; sarà la formula a cui farà riferimento Lacan con lalingua. Il De vulgari eloquentia è composto in latino quando Dante sta cominciando il poema e sembra quasi voler giustificare e motivare la scrittura della nuova opera in una nuova lingua, volgare e così discontinua.

MTM

Con la Commedia non solo inventa una nuova lingua, ne inventa una per ogni cantica. Nelle tre cantiche non inventa oggetti di desiderio da cantare, ma crea modi diversi di dire. Un modo sensoriale-immaginifico, un modo discorsivo e un modo paradisiaco teso a cogliere l’esperienza mistico-visionaria di un amore reale. Una lingua impossibile per il Paradiso (non semplicemente una parola incompleta a dire l’esperienza “ineffabile”, questa difficoltà Dante la enuncia già nell’Inferno). Invenzione di una lingua nuova, oltre il senso, oltre la narrazione.

D’altro canto tutta la Commedia, in maniera sempre più radicale, è costruita sull’idea dell’ineffabilità dell’esperienza ultima. Il Paradiso, a rigore, non dovrebbe essere stato scritto, perché è al di fuori della possibilità di essere verbalizzato. Ma non per questo è il luogo dell’astrazione, della vaghezza, dell’inconsistenza. È, semmai, il luogo della guerra del linguaggio. È il campo dell’impossibile. Ci sono canti in cui questo aspetto è più evidente. Canti meno narrativi e meno immaginali. A differenza dell’Inferno e del Purgatorio, dove la traccia narrativa è più evidente (ci sono i personaggi che si raccontano). Anzi, potremmo dire che l’Inferno è puramente narrativo: troviamo le storie con il loro pathos; è il luogo dell’immaginario con le storie dei personaggi, gli incontri, le scene di grande impatto visivo ed emotivo; il Purgatorio è discorsivo: troviamo i discorsi sul libero arbitrio, sull’amore, è il luogo simbolico dell’articolazione, dei discorsi, non delle storie singole ma dei contenuti assunti, problematizzati, elaborati in una prospettiva che dia senso all’umano. In Paradiso la traccia di fondo è anti-narrativa e anti-discorsiva. Non ci sono tanti o lunghi discorsi, ogni volta che Dante si mette a parlare della predestinazione, della libertà o della giustizia va a finire in un cul-de-sac. Non c’è una linea narrativa, dei personaggi ci vien raccontato ben poco, loro stessi, quando prendono parola, non indulgono sulla propria storia, non danno molta importanza alla loro vicenda biografica. Trasumanar vuol dire essersi lasciati dietro la biografia, le identificazioni, le sofferenze. Dante stesso, a questo punto, non sa cosa scrivere.

Ad esempio, nel canto XXIII non succede niente, dall’inizio alla fine. Per tutto lo svolgersi delle terzine Dante parla di ciò che non riesce a dire rispetto a quanto ha esperito. Si è manifestato una sorta di trionfo di luci che rappresentano la Madonna, gli Apostoli… rispetto al quale assistiamo a un continuo venir meno della parola. Un insieme di similitudini e di enunciati sull’impossibilità di raccontare. In questo, un canto tipicamente paradisiaco. Anche il XXXIII è una continua riproposizione di dire e di resa: Dante prova a dire e non ce la fa, riprova e non ce la fa.[10] Alla fine sembra ci stia per dire qualcosa  ma si deve rassegnare al fallimento: “A l’alta fantasia qui mancò possa” (v. 142). La Commedia si chiude senza che noi sappiamo cosa sia avvenuto, sappiamo che è avvenuto qualcosa, ma non sappiamo cosa.

MC

Eppure scrive. Non discorsi, non storie, ma scrive. Nella terza cantica si assiste a una trasmutazione della percezione, del modo di vedere e comprendere, del modo di godere. Cambia il valore della conoscenza. Evidentemente, per rendere questa trasmutazione Dante deve inventare una lingua nuova, una parola che non sia solo racconto, descrizione, ombra delle cose. Ma che sia essa stessa creatrice di mondo. È spinto alla ricerca di una lingua poetica “reale”, in grado di evocare l’indicibile, il singolare. È costretto a inventare una diversa materialità della parola, una lingua che dica l’ek-sistenza, il trasumanar, appunto: “Trasumanar significar per verba/non si porìa però…” (Par. I, vv. 70-71). Nella stessa lezione in cui parla dell’amor cortese e di Dante, Lacan riprende nel Sem. XXI la differenza tra linguaggio e lalingua per sottolineare come il ritmo, il ritornello, l’ambiguità, la polisemia di ogni parola, permette al senso di non fermarsi ma di scorrere. Uno scorrimento che forma qua e là delle vaschette, dei vacuoli. Il senso delle parole rimane sospeso. Per questo il modo del possibile ne emerge. Al limite tutto è possibile per le parole, a condizione che non abbiano più senso (Lez. del 18 dic ’73).[11]

Possiamo dire che nella Commedia Dante crea una lingua poetica non semplicemente evocativa, metaforica, ma come veicolo di approssimazione al Reale?

MTM

Ci sono terzine che sembrano suggerire una dimensione della lingua totalmente altra dal senso, dalla comunicazione:

Nel giallo della rosa sempiterna,

che si dilata ed ingrada e redole

odor di lode al sol che sempre verna  (Par., XXX, vv. 124-126).

Oppure:

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,

tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille
.  (Par., III, vv. 10-15)

Prima di capire il senso di questi versi, percepivo un essere cullata abbacinata dallo sfavillìo di specchi e di perle….  Questo è il modo in cui Dante descrive gli spiriti paradisiaci. Non corpi in immagine, non volti, ma tratti, riflessi, bagliori, fiamme.

MC

Mi ha sempre colpito la ricchezza di neologismi. In particolare, la serie che vanno sotto il nome di verbi parasintetici:  inluiarsi, intuiarsi, insemprarsi, inventrarsi, internarsi…, ad esempio:  s’io m’intuiassi, come tu t’immii (Par. IX, v. 81). Neologismi che sembrano spingere a una trasmutazione che si avverte nel corpo.

MTM

Sì, molti evocano la fisicità, la fusione, il fare uno con un elemento, una cosa, con l’altro. Molti sono rimasti nell’uso della lingua: inurbarsi (entrare in città), dirocciarsi (scendere giù da una roccia), trasumanare (trascendere l’umano) e tanti altri.

La trinità

MC

Vorrei portare il nostro dialogo su alcuni riferimenti che Lacan fa a Dante nell’ultimo periodo, soprattutto a partire dal Sem. XX.

Ad esempio, parlando della religione cristiana nel Sem XXI dice che è La religione, la vera religione poiché ha inventato questa cosa, questa cosa sublime, la Trinità. Essa  – dice Lacan – ha visto che ce ne vogliono tre. Che ci vogliono tre cordicelle di uguale consistenza perché il niente funzioni. Tuttavia è curioso vedere cosa tutto ciò produca rispetto all’amore (Lez. del 18 dic. ’73). Poco dopo (nella lezione del 12 marzo), nota come sia strano che la via su cui si è manifestato per la prima volta il dogma della Trinità non sia stata quella del Vero ma quella estetica dell’immagine, del corpo, del Bello. Ovvero, attraverso il mito della passione di Cristo, il mito del godimento del corpo martoriato che produce un corpo glorioso.[12] E Lacan si chiede, in cosa il Simbolico, l’Immaginario e il Reale avrebbero la pretesa di andare un po’ più lontano del girare intorno al godimento, al corpo, alla morte.

MTM

Credo che Dante abbia colto precisamente questo nucleo vitale dell’esperienza cristiana e abbia concepito la trinità non come relazione tra tre persone definite, ma come un processo attraverso cui costantemente l’essere produce nuovi piani di manifestazione.

Quell’uno e due e tre che sempre vive

e regna sempre in tre e ‘n due e ‘n uno,

non circunscritto, e tutto circunscrive  (Par. XIV, vv. 28-30)

In questa intuizione della natura profondamente trinitaria del cristianesimo, è evidente in Dante un superamento sia del tomismo che del neoplatonismo. Nel cristianesimo ci sono due aspetti fondamentali e unici: la concezione trinitaria e quella dell’incarnazione. Il cristianesimo senza questi concetti non ha senso.

MC

Trinità per noi è ISR del nodo borromeo. C’è una terzina che sembra letteralmente descrivere i tre anelli del nodo borromeo:

 Nella profonda e chiara sussistenza

Dell’alto lume parvermi tre giri

Di tre colori e d’una contenenza  (XXXIII, vv. 115-117)

Incarnazione è l’annodamento Immaginario-Simbolico-Reale attraverso il corpo-godente, il sinthomo. Anche qui mi colpisce la terzina in cui si evoca il nodo e il godimento:

La forma universal di questo nodo

Credo ch’i vidi, perché più di largo,

dicendo questo, mi sento ch’i godo  (vv. 91-93)

Possiamo dire che diversi modi di annodare ISR corrispondono a nuovi piani di manifestazione?

MTM

In Dante c’è una concezione molto interessante del processo di creazione che va verso la materia (il diverso da sé) per produrre dei piani di manifestazione sempre nuovi. Questa è un’idea molto diversa dal neoplatonismo. Nel canto XXIX:

Non per aver a sé di bene acquisto,
ch’esser non può, ma perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,
in sua etternità di tempo fore,
fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
s’aperse in nuovi amor l’etterno amore
. (vv. 13-18)

Qui non è un processo di discesa. È un processo di apertura, di irradiazione: da etterno amore s’aperse in nuovi amor.

Forma e materia, congiunte e purette,
usciro ad esser che non avia fallo,
come d’arco tricordo tre saette.
(vv. 22-24)

Questo è molto diverso da un processo di emanazione verticale spirito-materia-forma di tipo neoplatonico. Nel senso che c’è una uguale dignità della forma e della materia: forma e materia congiunte e pure usciro come d’arco tricordo tre saette, è un contemporaneo manifestarsi di tre modalità diverse.

Potremmo dire che i cerchi non possono pensarsi né gerarchicamente né isolatamente, sono tre modi che si annodano e se si toglie uno qualsiasi dei tre il nodo si scioglie.

Infatti Dante, poco più avanti dirà:

pura potenza tenne la parte ima;
nel mezzo strinse potenza con atto
tal vime, che già mai non si divima
. (vv. 34-37)

Importante che quell’unione, quel vime, non si sciolga, divima.

MC

Lacan lo ribadisce in ogni modo, l’importanza di questa ternarietà non si sostiene che da questo: i tre anelli non si distinguono tra loro per nessuna qualità, non c’è differenza tra Immaginario, Simbolico e Reale, la loro sostanza non è diversa, non ne facciamo delle qualità. La loro qualità è una.  È il loro annodamento a fare la ternarietà (Sem. XXI, ibidem).

L’Uno

MTM

Gli studi danteschi di ultima generazione hanno messo in evidenza la problematicità di una lettura tomista della Commedia. Portano l’attenzione oltre la contrapposizione tomismo-neoplatonismo. Addirittura, nel canto XIII del Paradiso Dante fa parlare s.Tommaso come un neoplatonico, per il quale l’Uno che sta all’origine di tutto e che non si disgiunge da niente, questo principio creatore non è il motore immobile di Aristotele è semmai l’Uno di Plotino:

Ciò che non more e ciò che può morire

Non è se non splendor di quella idea

Che partorisce, amando, il nostro sire:

ché quella viva luce che s’immea

dal suo lucente, che non si disuna

da lui né dall’amor ch’a lor s’intrea,

per sua bontade il suo raggiare aduna,

quasi specchiato, in nove sussistenze,

etternamente rimanendosi una.

Quindi discende all’ultime potenze

Giù d’atto in atto, tanto divenendo,

che più non fa che brevi contingenze.    (vv. 51-63)

In quest’ultima terzina troviamo proprio il processo emanazionistico di Plotino. Questo specchiarsi attraverso i diversi piani (le nove sussistenze, i nove cieli) fino ad arrivare alla terra dove ci sono le cose contingenti. Questo progressivo discendere è l’emanazionismo neoplatonico.

Ma nel neoplatonismo c’è una ambiguità di fondo. Cioè l’idea che dall’Uno alla manifestazione più lontana da Dio, il mondo terreno, ci sia un processo di progressiva degradazione, una diluizione del principio divino, dell’Uno. L’Uno è presente ovunque, ma man mano che si discende verso la materia si indebolisce.

Dante ha una concezione diversa dai neoplatonici e, sulle questioni di fondo, Dante è molto lontano anche da s.Tommaso. Ad esempio sulla questione dell’anima: nel XXV del Purgatorio, Stazio dice che la virtù formativa sia in Alberto Magno che in Tommaso è un presupposto di partenza che ha a che fare col corpo ma a un certo punto scompare perché esaurisce le sue funzioni. Invece per Dante non solo il corpo è presente in ogni fase della formazione dell’anima, ma addirittura poi nell’aldilà fa sì che il corpo del dannato-penitente si possa riformare, come corpo aereo, poiché è solo attraverso il corpo che può fare esperienza. Per s.Tommaso no. Alla questione come possano soffrire i dannati senza avere il corpo, s.Tommaso non sa rispondere. Alla domanda se le anime beate separate dal corpo possono godere pienamente della visione di Dio, s.Tommaso risponde sì, Dante no. Per Dante il corpo è imprescindibile. Sia per soffrire che per godere. Per Dante i dannati e penitenti hanno un corpo senziente, con cui provano la sofferenza dei tormenti o il pungolo dei desideri. L’ombra corporea si plasma a seconda di come percepiscono le sensazioni, le emozioni:

Quindi parliamo e quindi ridiam noi;
quindi facciam le lagrime e ‘ sospiri
che per lo monte aver sentiti puoi.

Secondo che ci affliggono i disiri
e li altri affetti, l’ombra si figura;
e quest’ è la cagion di che tu miri
.  (Purg, XXV, vv. 103-108)

Quando però arriviamo in Paradiso non abbiamo più corpi ombre, ma corpi di luce. E solo nel momento in cui ci sarà la resurrezione dei corpi il Paradiso sarà realizzato pienamente. Salomone: noi saremo nel perfetto godimento solo quando saremo ricongiunti al corpo. Beatrice, intuendo la meraviglia di Dante, chiede alle anime beate: voi siete pura luce ma sarete sempre pura luce? E quando vi ricongiungerete ai corpi sarà la luce a prevalere o sarà il corpo? E il il beato risponde: sarà il corpo. Sarà un corpo luminoso e ancor più ardente. Beatrice: voi siete perfetti così o quando ci sarà la resurrezione dei corpi avrete qualcosa di più? I beati rispondono: certo avremo molto di più, saremo completi nel modo di relazionarci all’intensità della manifestazione (Par. XIV, vv. 34-60). È un costante incremento di beatitudine e desiderio che nasce dal corpo. Questo non è tomismo. Questa incompletezza, questa attesa della ricongiunzione coi corpi, ci fa vedere un altro aspetto fondamentale, cioè che il Paradiso non è fermo, è in movimento, è dinamico, in attesa di questo ulteriore momento di riunione col corpo. Non è il luogo fissato nella posa della contemplazione.

MC

Questo mi richiama l’ultima fase dell’insegnamento di Lacan in cui proprio la ripresa dell’Uno ha avuto un ruolo importante, J.-A. Miller precisa che: “Lacan elabora una lettura dell’Uno che non lo identifica né con l’Essere supremo né con il Deus sive natura. Si tratta in realtà di una concezione inedita dell’Uno. Concezione che non è né teista né deista né atea” (p.  95).[13] Si tratta di una concezione che connette l’Uno al godimento. E in questa connessione Uno-godimento, Dante costituisce sicuramente un precedente, come tu hai mostrato. Nel Seminario XX, Lacan aveva portato l’attenzione sul fatto che “il significante Uno non è un significante qualsiasi. È l’ordine significante in quanto si instaura dall’avvolgimento per cui sussiste tutta la catena. […] L’Uno incarnato in lalingua è qualcosa che resta indeciso tra il fonema, la parola, la frase o anche l’intero pensiero”, l’intera opera (pp.137-138). In certi casi a fare Uno, ciò che tiene insieme, è l’opera stessa, la Commedia ne è l’esempio per eccellenza.

In ogni caso, è un significante speciale, che non fa serie, che non si accoppia con un S2. “Bisogna partire da questo: il C’è dell’Uno è da prendere cogliendo l’accento per cui dell’Uno c’è assolutamente da solo”. Solo a partire da qui si afferra il nerbo di quel che chiamiamo amore (ivi, p. 64).

L’Amore come Nodo

MC

L’amore come nodo, come l’Uno che annoda i diversi registri. In questo vedo anche la scommessa di Dante, il suo passo ulteriore rispetto ai poeti dello stil novo, l’invenzione di una lingua e di un immaginario in grado di dire ciò che tiene insieme il basso e l’alto, la politica e la mistica, l’ineffabile e la pura contingenza. Alla fine non è il desiderio per l’oggetto amato, ma l’amore per il sapere e per il ben-dire che sostiene Dante. L’Uno, il nuovo amore che tiene insieme, è la Commedia stessa. Nel Paradiso, infatti, lo sforzo mi sembra sia quello di far confluire tutto sul significante Amore. “La congiunzione totale della realtà e del simbolo come una sola e medesima cosa, ecco il senso che dobbiamo dare a quella cosa limite di cui si può appena parlare, vale a dire l’amore”.[14]

MTM

Sì, l’amore come annodamento mi sembra applicabile all’idea che Dante ha di quell’Uno, di quel principio asemantico che tiene insieme e muove ogni cosa. Il Paradiso è una costellazione di scene, personaggi, visioni che suggeriscono annodamenti spesso paradossali, contingenti, singolari, fuori-senso. Mi vengono in mente due esempi. Cunizza da Romano che parla di un amore per nulla disincarnato. Mostra che la questione non è limitarsi nella passione amorosa, ma nell’assumersi fino in fondo la responsabilità del proprio sentire e sostenerlo nella sua intensità. Cunizza, che è nel cielo di Venere, è una nobildonna che ha avuto una vita amorosa molto libera, si è vissuta serenamente le sue passioni, arriva all’amore divino attraverso l’amore terreno, dice pochissimo di sé stessa ma indica che carnale e spirituale non sono divergenti. L’intensità del desiderio, la libertà sessuale non sono necessariamente infernali. L’altro esempio è quello degli spiriti sapienti.

È la scena, che mi ha sempre meravigliata, di quando Dante arriva nel cielo del sole, siamo nel regno del logos, dei dottori della Chiesa: c’è s.Tommaso, Sigieri di Brabante  Pietro Lombardo,  Dionigi l’Areopagita,  Severino Boezio. Ci si aspetterebbe queste anime beate rappresentate nella loro gravità, invece Dante vede e ci fa vedere fanciulle che danzano. Non uomini vecchi, barbuti, seriosi…. ma leggiadre danzatrici:

Poi, sì cantando, quelli ardenti soli

si fuor girati intorno a noi tre volte,

come stelle vicine a’ fermi poli,                          

donne mi parver, non da ballo sciolte,

ma che s’arrestin tacite, ascoltando

fin che le nove note hanno ricolte.  (X, vv.76-81)

S.Tommaso, Boezio te li immagini come fanciulle che danzano e seppur ferme continuano a muoversi al ritmo della monodia (non da ballo sciolta)?

MC

Straordinario! Tra comico, onirico, sublime!

La femminilizzazione del sapere. In fondo l’amore c’entra eccome, l’amore per il sapere è trasumanato nel segno del femminile. Da qui vorrei riprendere proprio dall’amore come nodo che tiene insieme, non importa cosa o chi. Nel Sem. XXI, Lacan ritorna a precisare che ciò che chiamiamo amore è ciò che supporta il nodo borromeo. È ciò che permette di connettere il reale al sapere, il desiderio al godimento, l’uomo alla donna.[15] Se l’amore è questo connettore, allora è il caso che la psicoanalisi corregga il suo spiazzamento, – dice Lacan – visto che non ha fatto altro finora che seguire il viraggio, fuori posto, del desiderio. La psicoanalisi deve sapere che è nel posto dell’amore che si regge (Lez. del 18 dic ’73). Non del desiderio. Per Lacan la psicoanalisi si deve misurare con l’invenzione di un “amore nuovo”, più degno della chiacchiera comune, un amore capace di determinare un reale in modo nuovo, distinto dal reale della scienza che produce apparati tecnici. La psicoanalisi deve lasciar intravedere “la significazione di un amore infinito” (Sem XI, p. 271).[16] Ma infinito non è il Tutto, semmai è il non-tutto. È il femminile. In fondo, Beatrice è la porta per l’amore infinito proprio perché è non-tutta. Non è La donna spersonalizzata e universale dell’amor cortese.

Bisogna portare in campo l’alterità nell’amore. Nelle ultime parole del Seminario dedicato al desiderio, Lacan avvertiva che sotto le spoglie della madre-donna universale abbiamo pensato di trovare il soggetto che contiene tutto. “È ciò che fa sì che occasionalmente possiamo ingannarci sul rapporto fra il soggetto e il Tutto, credendo che esso ci venga fornito dagli archetipi analitici, mentre si tratta di tutt’altro, ovvero dell’apertura beante che apre su quel qualcosa di radicalmente nuovo che viene introdotto da ogni dettaglio della parola” (Sem VI, p. 536).[17]

MTM

Apertura beante che apre su qualcosa di radicalmente nuovo. Alla lettera. Nel Paradiso, il punto di arrivo di Dante nel viaggio attraverso i cieli planetari, dove va a finire? In un buco. In un punto. Giunto al nono cielo, il più grande, il primo mobile, Dante non sa più dov’è. Perché nel cielo delle stelle fisse sa dov’è, invece quando entra nel primo cielo mobile con Beatrice le coordinate cominciano a essere poco chiare, ma è in questo smarrimento che intravede un punto piccolissimo nel quale si immerge. Il punto di arrivo è un buco in cui le categorie spaziali e temporali sono sovvertite.

Presso e lontano, lì, né pon né leva;

ché dove Dio sanza mezzo governa,

la legge natural nulla rileva.     (XXX, vv. 121-123)

MC

È come se la Commedia costruisse una topologia con al centro un punto. Quando si avanza nella direzione di questo vuoto centrale, cosa accade?

Si tratta, forse, di “quella topologia che pone al centro di ciascuno di noi quel luogo beante da cui il niente ci interroga sul nostro sesso e sulla nostra esistenza […], niente è più vicino a noi di questo luogo”.[18]

 NOTE

[1] Lacan J., Il Seminario, Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 1994.

[2] Il tema dell’amor cortese ci permette di cogliere la formula generale della sublimazione estendibile ad ogni campo. Proprio perché la sublimazione, come uno dei destini della pulsione, offrendo una soddisfazione diversa dalla meta sessuale, rivela la natura della pulsione come distinta dall’istinto.

[3] Lacan J., “Televisione”, Altri scritti, Einaudi, Torino, 2013.

[4] Dante, Vita nova, Mondadori, Milano, 2016.

[5] Lacan J., Il Seminario. Libro IX. L’identification, 1961-1962, Inedito.

[6] Di Ciaccia A., “Dante e l’amore”, La Psicoanalisi, n. 34, 2003.

[7] J.-A. Miller, “Biologia lacaniana ed eventi di corpo”, La Psicoanalisi, 28, 2000, p. 97.

[8] Man mano che si sale il desiderio si intensifica, il fuoco aumenta. Il Paradiso è il luogo di spiriti ardenti, che bruciano di desiderio. Non sono fiamme metaforiche ma “sempiterne fiamme”. Il Paradiso è scritto per incrementare il coefficiente di ardore negli esseri umani, non per raffreddarli, temperarli. E in questo non è poesia cortese. Semmai poesia mistica che trova nei poeti islamici i primi e più potenti riferimenti: di coloro che hanno testimoniato di una esperienza divina come incontro col femminile. Dante nel Paradiso dice di Beatrice: quand’ ella entrò col foco ond’ io sempr’ardo (XXVI, vv. 12-15).

[9] Lacan J., Il Seminario XII, Problèmes cruciaux, 1964-1965, Inedito.

[10] Da quinci innanzi il mio veder fu maggio/che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede,/e cede la memoria a tanto oltraggio (Par. XXXIII, vv. 55-57). Omai sarà più corta mia favella,/pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante/che bagni ancor la lingua a la mammella (Par. XXXIII, vv. 106-108). Qual è il geometra che tutto s’affige/per misurar lo cerchio, e non ritrova,/pensando,quel principio ond’elli indige, tal era io a quella vista nova (Par. XXXIII, vv. 133-136).

[11] Lacan J., Il Seminario XXI, Les non-dupes errent, 1973-1974, Inedito.

[12] Non a caso, l’anno prima Lacan aveva già rilevato questo punto di capitone del Cristianesimo: “Che importanza può avere nella dottrina cristiana che Cristo abbia un’anima? Questa dottrina parla solo dell’incarnazione di Dio in un corpo, e presuppone giustamente che la passione sofferta in questa persona abbia prodotto il godimento di un’altra. […] “Il Cristo, anche resuscitato, vale per il suo corpo, e il suo corpo è il tramite attraverso il quale la comunione con la sua presenza è incorporazione” (Sem. XX, p. 108).

[13] Miller J.-A., Di Ciaccia A., L’uno-tutto-solo, Astrolabio, Roma, 2018.

[14] Lacan J., Dei Nomi-del-Padre seguito da Il trionfo della religione, Einaudi, Torino 2006, p. 30.

[15] Già nel 1963 scriveva: “solo l’amore permette al godimento di accondiscendere al desiderio” (p. 193), Il Seminario. Libro X. L’angoscia (1962-1963), Einaudi, Torino, 2007.

[16] Lacan J., Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino, 2003.

[17] Lacan J.,  Il Seminario. Libro VI. Il  desiderio e la sua interpretazione (1958-1959), Einaudi, Torino, 2016.

[18] Lacan J., Dei Nomi-del-Padre, op. cit., p. 88.

[1] Questo lavoro è la trascrizione di un dialogo orale poi integrato con i riferimenti testuali.

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