La lingua dell’inconscio: Lacan con Artaud

La lingua di cui si occupano psicoanalisti e artisti non è quella che studia la linguistica. È una lingua imbevuta di desiderio e di godimento, fatta di impossibili a dire, di equivoci, di depositi che una storia del tutto singolare ha lasciato sul fondo. Una lingua con la quale si cerca di fare altro che comunicare e significare. Artaud mostra nel vivo della sua carne-opera la ricostruzione di questa lingua che Lacan ha teorizzato.

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Questi giorni, ho creduto veramente di morire, non so più dov’è il mio corpo. Sento la presenza minacciosa incessante del mio corpo.

Conosco uno stato fuori dallo spirito, dalla coscienza, dall’essere, dove non ci sono più né parole né lettere, ma in cui si entra per grida e per colpi.

Senza dubbio, nella scrittura di Artaud troviamo un esempio straordinario di creazione linguistica. Nessun folle ha scritto quanto e come lui del proprio abisso, fino in fondo, con una tale lucidità e crudeltà da lasciare smarriti i suoi lettori.

In particolare, la scrittura di Artaud degli ultimi anni della sua vita, cioè 1945-48, sembra annunciare quella che Lacan chiamerà lalingua. Certo, molti schizofrenici ci hanno offerto versioni di destrutturazione, di sabotaggio, di reinvenzione del linguaggio. Ma nessuna tra queste invenzioni parla letteralmente la lingua che Lacan ha pensato e che Artaud ha scritto. In Artaud la lingua si origina dal corpo, non è irriducibile ad un genere, al senso, alla comprensione.

È impossibile leggere la scrittura di Artaud senza sentire il suo tentativo di incidere il corpo, continuo lavorìo di cesellatura e di scarificazione per estrarne una nuova esperienza di sé e del mondo, un nuovo modo di sentirsi nel proprio corpo, un nuovo modo di  goderne. Mai bisturi ha inciso e affondato nella viva carne, in maniera così precisa e cruenta, offrendoci la visione di un interno a cielo aperto, senza velature o ritocchi. La sua scrittura non è tanto un modo per riportare, raccontare, comporre, dare senso e coerenza a un sistema di pensiero. Non è una “metafora delirante”. Essa è il bisturi stesso, bisturi che incide, supplenza e supplizio ad un tempo. Potremmo dire che la sua scrittura corrode le apparenze fino all’osso del reale, mostrandoci l’ombelico del segno, parafrasando Freud. Il punto cieco in cui reale e simbolico si toccano, in cui la parola e la carne sono una cosa sola. L’arte per lui deve essere questo, un atto in grado di toccare la giuntura che unisce lo spirito al corpo.

È la ricerca di un mondo perduto

e che nessuna lingua umana raggiunge

la cui immagine sulla carta non è anch’essa più di un

calco, una specie di copia

                      ridotta

Poiché il vero lavoro è nelle nubi.

Parole, no,

aride placche di un respiro…

Cerca, Artaud, un linguaggio che non lasci spazio all’impostura. Esiste una lingua che non sia un calco, una falsa copia del reale? Per dirlo con le parole del titolo del seminario di Lacan del ’71: esiste un discorso che non sia del sembiante?

Per approfondire vedi qui in PAS: La lingua perduta e ritrovata: Artaud con Lacan.

 

 

 

 

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