Adolescenti in bilico

L’adolescenza è una strana fase della vita. Età di malesseri ma anche di grandi sogni.

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Età di cadute, di silenzi, di vuoti.

Età di forti desideri, dei primi amori, delle iniziazioni sociali.

Due opere letterarie hanno portato alla luce i diversi frutti di questa stagione: Il risveglio di primavera (di Wedekind) e Una stagione all’inferno (di Rimbaud).

Ambedue parlano dell’adolescenza come età della transizione, della crisi, segnata da una “bizzarra sofferenza”.

La prima evidenza è che l’ingresso in questa età in cui non si è più bambini e non ancora adulti è segnato dal cambiamento del corpo, da una metamorfosi, dal risveglio delle pulsioni e delle fantasie sessuali.

1. Il risveglio del corpo pulsionale

In Risveglio di primavera, dei ragazzi di 14 anni – in particolare Wendla, Moritz e Melchior – incontrano la sessualità. Melchior e Moritz parlano tra loro del primo eccitamento sessuale che hanno provato, e Moritz ne è molto imbarazzato: preferirebbe non essere invaso da questa sensazione inedita e immagina un mondo senza differenza sessuale. Sebbene Moritz manifesti il proprio imbarazzo a parlare della sessualità persino con l’amico, e preferisca che lui gli mandi delle spiegazioni scritte – ragion per cui Melchior gli dice “sei una femminuccia” – ammette però di aver sognato delle gambe femminili con delle calze blu sopra una cattedra.

“– Tu li hai già provati? – Cosa? – Gli stimoli – Io li conosco già da quasi un anno – Io sono rimasto colpito come da una folgore – Avevi sognato? – Sì, ma brevemente… gambe in maglia celeste che montavano sulla cattedra… per essere sincero, pensavo che volessero scavalcarla. Le ho viste soltanto di sfuggita – Giorgio ha sognato mia madre – Te l’ha raccontato lui? – Sì, là fuori sul ponticello – Tu sapessi che cosa ho passato da quella notte! – Rimorsi? – Rimorsi? Angosce mortali! – Dio mio… – Mi credetti inguaribile. Immaginai di avere una malattia interna. Infine ritrovai la tranquillità soltanto mettendomi a scrivere le mie memorie. Sì, sì, caro Melchiorre, queste tre ultime settimane sono state per me un inferno. – A suo tempo, più o meno me l’aspettavo. Mi vergognai un poco. Ma tutto finì lì. – Non ricordo di aver mai provato il desiderio di questa specie di eccitamenti. Perché non mi hanno lasciato dormire tranquillamente finché tutto fosse passato? Ricordo che quando avevo cinque anni ero già imbarazzato se uno buttava la dama di cuori, così scollata. Questa vergogna poi è svanita. Ma oggi non mi riesce quasi di parlare con una ragazza senza pensare a qualche cosa di abominevole e… te lo giuro, Melchiorre, non so cosa sia”.

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È, appunto, il risveglio di primavera. È l’emergere di un corpo nuovo, strano, estraneo. Un corpo nuovo che richiede un nuovo modo di guardarlo, di vestirlo, di mostrarlo; un nuovo modo di toccarlo, di curarlo, di ascoltarlo; un nuovo desiderio per sentirlo come proprio; una nuova lingua per poterne nominare i movimenti interni, le parti, le inedite pulsioni, una lingua in grado di tradurre questo corpo straniero che risulta spesso incomprensibile. Anche l’incontro con il corpo dell’altro spesso non è rassicurante, non combacia con il sogno d’amore, le prime esperienze sessuali sono spesso traumatiche o alienanti. Per esempio, quando Melchior vuole fare l’amore con Wendla, lei obietta “ma non c’è l’amore”, ma lui la prende ugualmente. Sempre, qualcosa non va nella sessualità, non c’è nessuno che davvero se la cavi bene. Moritz cerca di farsi eccezione e per questo Melchior lo definisce una “femminuccia”. Per farsi eccezione si pone al di là dello standard normale dei suoi compagni, poiché si tratta di reperire la propria differenza dagli altri. È un’età in cui si è perduta la testa: nel dramma di Wedekind è la regina senza testa (pulsione acefala). Alcuni di loro soffrono per la severità della scuola e delle loro rispettive famiglie. Il dramma prende una svolta tragica: Moritz, che non riesce a studiare e teme di essere bocciato, si suicida; Wendla, che è rimasta incinta nel suo primo rapporto sessuale con Melchior, muore a causa di un aborto che le viene fatto praticare dalla madre.

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Poco prima di suicidarsi, Moritz incontra Ilse, una ragazza che ha lasciato la scuola e che fa la modella per uomini più grandi. Lei lo invita a seguirla ma lui rifiuta. Nel momento in cui Moritz si decide a richiamarla, lei ormai si è allontanata e non può più udirlo. Moritz cerca di trovare la sua identità ma non riesce a rapportarsi a nulla, rifiuta di prendere posizione rispetto alla sessualità, non si distingue a scuola, e immagina come unica soluzione la fuga in America. Perciò, non potendo attuare questo modo di sparire, si suicida. Anche nella sua famiglia Moritz è il bambino non desiderato. Per Freud il suicidio è il culmine dell’autoerotismo negativo (l’invasione della pulsione che non trova modo di connettersi con l’altro). Freud ha commentato anche il masochismo di Wendla, che sogna di essere picchiata e, parlando di una sua amica che quotidianamente viene picchiata dal padre, dice: “Con gioia vorrei essere al suo posto per otto giorni. Io in tutta la mia vita non ho mai preso le botte, nemmeno una volta. Non so neanche figurarmi che impressione faccia prenderle. Mi sono già picchiata da me per sentire che cosa si prova. Dev’essere una sensazione raccapricciante. Con questa verga, per esempio… Uh, come è flessibile e sottile. Tu mi picchieresti una volta con questa?”

Nel dramma di Wedekind c’è il gruppo degli alunni della scuola, gli altri in quanto pari, simili; ma c’è anche il gruppo degli artisti, rappresentati dagli uomini più grandi che frequenta Ilse, la modella. Per ritrarla nei loro quadri, gli artisti le chiedono di indossare una serie di travestimenti eccentrici e di mettersi in pose particolari, giocando col suo corpo mentre lei è seminuda.

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Infine, il dettaglio più originale e particolare di quest’opera di Wedekind, è il personaggio dell’Uomo mascherato. Questa figura nel dramma viene a salvare Melchior che stava per suicidarsi come Moritz, perché si considerava responsabile della morte di Wendla che lui aveva messa incinta. Che cosa dice l’Uomo mascherato a Melchior? “Hai fame, vieni a mangiare, hai freddo, vieni a riscaldarti”. In una parola lo invita a occuparsi del proprio corpo, gli ricorda che il suo corpo è un corpo vivo, e lo allontana dallo spettro di Moritz che cerca di portare il suo vecchio amico tra i morti. La maschera presenta due versanti. Uno è quello di depsicologizzare, di spersonalizzare, l’Uomo mascherato non è un soggetto, è una funzione: l’Uomo mascherato è colui che invita a entrare in un gioco, in una messa in scena. C’è poi un altro versante: è anche un nome, un’identità non svelata, da scoprire. L’importanza di questo personaggio è sottolineata dal fatto che Wedekind dedica la sua opera all’Uomo mascherato, nome di qualcuno di cui non si conosce il volto.

2. Una stagione in inferno

Dopo l’infanzia, per Freud, si attraversa una fase di latenza, una sorta di letargo invernale delle pulsioni sessuali che si risvegliano solo con la pubertà. Il risveglio, però, lo abbiamo visto con Wedekind, non è in una primavera felice ma dannata (secondo il poeta adolescente Arthur Rimbaud). Assomiglia a una stagione in inferno, popolata da demoni:

Questo veleno, questo bacio mille volte maledetto!

La mia debolezza, la crudeltà del mondo!

Mio Dio, nascondetemi, io mi comporto troppo male!

Questo fuoco si ravviva con il suo dannato!

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L’adolescente nel giro di poco tempo si ritrova in una strana situazione, come se uno sconosciuto fosse arrivato all’improvviso e lo avesse sbattuto fuori di casa. Esiliato dalla casa dell’infanzia: “Nelle vene dell’adolescente circola il sangue dell’esilio”. Esule nel suo corpo, esule nel mondo, si percepisce estraneo a se stesso: “Io è un altro”. Ormai non riconosce più la sua stessa natura, non sa chi è davvero, le parole risuonano vuote o false, perché non sono in grado di esorcizzare queste angosce. Non c’è una lingua capace di dire il tumulto interiore, quella dell’adulto non risuona con questi fremiti, non è in grado di nominarli. Allora questa bizzarra sofferenza non prende parola, rimane muta, non si trasforma in domanda di aiuto. Nel mondo dell’adulto non trova le parole per dirla. Spesso non trova nemmeno l’ascolto. Allora l’inquietudine si trasforma in rifiuto, ritiro, chiusura. Oppure in ribellione, aggressione. All’improvviso si manifesta in “sintomi dell’eccesso”: anoressia, bulimia, dipendenze, atti violenti, autolesionismo, isolamento.

“Mi tagliuzzerò per tutto il corpo, mi farò dei tatuaggi, voglio diventare ripugnante: vedrai urlerò per le strade. Voglio diventare proprio pazzo di rabbia”.

A volte l’adolescente giunge a una esclusione di sé radicale e definitiva (tentativi di suicidio, atti autodistruttivi). A volte l’essere stato un bambino non desiderato sembra aver innescato una vocazione alla sparizione. A nulla valgono le sofferenze, al nulla sono votate le buone intenzioni e gli aiuti di familiari, amici, psicologi o analisti…. la tragedia si consuma nel silenzio.

Questa bizzarra sofferenza

possiede un potere inquietante,

anima smarrita e vogliosa della morte.

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Altre volte l’esito è la sconnessione da tutto e da tutti. Non è un caso se la maggior parte degli esordi psicotici avvengono nella fase di uscita dall’adolescenza, nel momento in cui si tratta di varcare una soglia (seppur simbolica) per entrare nell’età adulta: la fine delle scuole superiori, la decisione sul futuro, un amore importante, il primo lavoro… Animati dalla folle ricerca della “vera vita”, gli adolescenti si muovono in una terra di nessuno, in bilico tra la regola e il caos, tra la luce e l’ombra, tra il troppo e il vuoto, tra il già dato e l’inedito, tra la vita e la morte. Le parole del poeta adolescente danno voce a questa stagione turbolenta, animata da una sfrenata sete di vita, da rischiosi giochi con la morte: “La vita vera è assente. Noi non siamo al mondo”.

La  passione per scenari autunnali, crepuscolari, dark, tragici, per i vampiri, gli zombie, i non-nati, i senza-nome, i senza-volto, i mascherati, può essere letta come un tentativo di trovare un posto a quel senza-volto che irrompe nel loro corpo. Il fuori-norma, l’inumano è anche un modo di rifiutare quello che appare inautentico nell’adulto, una “maschera” è un modo per dare nome a quello che è enigmatico e ambiguo nel mondo. Le pratiche adolescenziali più disparate sono un tentativo di dare consistenza a quel vuoto. In solitudine o insieme ai compagni, si tratta di dare peso, forma, densità a qualcosa.

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“Conosco ancora questa natura? Mi conosco? Basta con le parole. Seppellisco i morti nel mio ventre. Ora solo grida, frastuono, tamburo, danza, danza, danza! E nemmeno vedo il momento in cui cadrò nel nulla. Fame, sete, grida, danza, danza, danza!”

Il simile è sia colui che gli rimanda la sua inquietudine (anche lui alle prese con il suo disagio), sia colui che può capirlo e indicargli una soluzione, lui “ha forse qualche segreto per cambiare la vita!”

Il rapporto con il suo simile ha due facce. C’è il simile da aggredire, per annientare quella fragilità che vorrebbe veder sparire dalla faccia della terra (e da se stesso), non a caso la violenza, il bullismo prende di mira la presunta debolezza dell’altro. C’è poi il simile con cui associarsi, fare gang e riassorbire nella “psicologia di gruppo” la propria inquietudine, la propria fragilità.

L’adolescenza è il tempo della transizione, del turbamento, del rifiuto, della rabbia, della vergogna, del disgusto, del silenzio, del disordine, dello smarrimento, dell’esilio. Ma è anche il tempo della ricerca, dell’invenzione, della creatività, dello struggimento poetico, del sogno, della nascita di grandi amori. La sessualità, l’incontro, l’amore, sono un enigma e tocca attraversare delle vere e proprie iniziazioni per scoprire e intraprendere una propria strada.

L’adolescente cerca un adulto in grado di accogliere il suo disordine, di dargli un rifugio, di indicargli una strada, cerca un Altro in grado di iniziarlo e suggerirgli un modo per tradurre e inventare nuovi legami, autentici, affidabili. L’adulto non sa capire e spesso è anche ambiguo, ambivalente, inaffidabile, in balia egli stesso delle sue pulsioni. Come ci si può affidare? Piuttosto si fa strada l’odio, il rifiuto radicale. L’adolescente arriva a odiare l’Altro che non sa dirgli e dargli ciò che gli sarebbe d’aiuto. Rimprovera all’Altro di non sapergli parlare, di non sapergli nominare quello che lui stesso non riesce a capire e a dire. Vorrebbe essere riconosciuto in questa inquietudine, sostenuto in ciò che non sa e non si sa ancora. Invece l’adulto o si oppone a ogni suo cruccio, oppure cerca di definire, incasellare. Non sa stargli vicino, anche senza sapere, capire, definire. E se non c’è granché da aspettarsi dall’adulto, non rimane che la fuga nel corpo, negli oggetti di godimento, nelle pratiche mute, solitarie. Si cerca la risposta al proprio disagio nella soddisfazione immediata e autoerotica. Il risveglio della sessualità, scontrandosi con la difficoltà di legami duraturi e profondi, conduce a un rifiuto del corpo, a un rifiuto del “rapporto sessuale” (come nell’anoressia) o a una sessualità sregolata e disincarnata. Non è solo il proprio corpo ad essere un enigma, ma anche il corpo dell’altro, del partner. Si risvegliano e fanno irruzione in maniera improvvisa e violenta, pulsioni, desideri, sogni che possono prendere toni maledetti e autodistruttivi: “Le rabbie, le dissolutezze, la follia, di cui conosco tutti gli impeti e i disastri”

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Sul piano dell’identità, l’adolescente è nella fase in cui deve reperire la propria differenza dagli altri, il proprio posto particolare fra gli altri. Vuole essere riconosciuto nella sua particolarità, vuole entrare a far parte del consorzio del mondo senza essere fagocitato, alienato. Vuol essere con gli altri ma non come gli altri. Bisogna trovare un proprio modo che dica come “fare eccezione”. Stare con gli altri a condizione di ritagliarsi la propria particolarità, che va reperita e messa a fuoco. L’adolescente vuole un’alternativa alla “psicologia di massa” rappresentata dal mondo conforme dell’adulto. Se entrare a far parte della società vuol dire identificarsi con tutti gli altri e con gli ideali normali dove ciascuno ha già il proprio ruolo, il proprio posto, allora preferisce identificarsi in una fazione (Divergent) in cui rivendicare una particolarità (seppur fondata su aspetti marginali: il modo di vestire, i gusti musicali, le condotte alimentari). Oggi non sono i grandi ideali ad attrare l’adolescente… semmai sono le soddisfazioni concrete e immediate oppure un immaginario che distingue. Su questa base cerca di fare gruppo, di identificarsi con altri suoi simili che hanno i suoi stessi gusti, le sue stesse pratiche corporee. Il web offre infinite occasioni per trovare i propri amici (sia pur virtuali).

1. L’arte è una via

Una via per incarnare la trasgressione, la protesta, la deviazione, l’eccezione adolescenziale. Oltre a Rimbaud abbiamo l’esempio dell’adolescente Jarry. La prima versione di Ubu re fu scritta sui banchi del liceo ed era una parodia canzonatoria e dissacrante del suo insegnante (Félix Hébert) e in generale di tutto il sapere scolastico.

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È l’invenzione di un immaginario assurdo e di una lingua inedita, pura provocazione contro il mondo adulto, convenzionale. Il portato trasgressivo di linguaggi artistici va sempre tenuto in conto nel lavoro con gli adolescenti. È una possibilità di incontro, di ascolto, di elaborazione. In generale, il lavoro artistico consente di cercare una lingua nuova per poter tradurre quel corpo estraneo che lo ha esiliato, per poter contestare l’adulto, e poter essere riconosciuto prima ancora di essere capito e accettato. L’arte, infatti, può diventare la sonda e il luogo per intercettare, attrarre, ascoltare, accogliere, far esprimere, dare voce a quei malesseri che nell’adolescente si presentano come oscuri, opachi, invisibili, muti. Attraverso il fare metaforico e indiretto dell’arte si possono toccare ed elaborare lacerazioni, fratture, interrogativi angoscianti. L’arte ha un grande vantaggio nel fare questo: non imbavaglia e non riduce l’adolescente alla sua fragilità. Invita a cercare un senso, una particolare bellezza. Dà forma all’immaginario di chi, in età acerba, cerca, chiede, protesta di fronte all’incombere di una vita adulta di cui non si capiscono o non si accettano le regole. L’adulto può sostenere questo difficile passaggio, non chiudendo i dubbi e le domande che l’adolescente si fa sul mondo e su se stesso, tantomeno fornendo risposte prefabbricate o ideali standard o soluzioni di buon senso (neppure quelle date dai saperi psicologici che si affannano a dare etichette, identità, vademecum del benessere, dell’integrazione, della maturità, del corretto sviluppo, dei buoni sentimenti, dell’armonia, delle buone relazioni). Al contrario, ascoltare e favorire l’interrogazione, inoltrarsi in paesaggi autunnali, può aprire spazi tra…. soluzioni o verità diverse. Oggi più che mai l’adolescente si sente diviso, lacerato, ma è da questa frattura che può emergere il suo desiderio. Se l’adulto non cerca di coprire, di tappare questa faglia, se non frena e inibisce le domande, se riesce a tollerare di procedere errando, con la curiosità e l’entusiasmo dell’esploratore, allora…

Michele Cavallo, testo preparato per la serie di seminari Anni Acerbi, 2015-2016, Firenze-Roma-Bari.

2 thoughts on “Adolescenti in bilico

  1. Alessandro Derine ha detto:

    Già alle scuole elementari alcuni bambini “problematici” sembrano volere accanto a se un testimone in ascolto che sia a loro presente anziché qualcuno che gli faccia proposte di laboratori, giochi e altri intrattenimenti, nella scuola non incontro ancora una cultura dell’ascoltare, dell’accogliere le istanze acerbe dei comportamenti infantili.

    1. Michele Cavallo ha detto:

      Infatti, Ale. E’ molto più difficile stare in un’attitudine di ascolto, piuttosto che sapere già cosa insegnare, fare, dire….

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