Alice nel paese della psicoanalisi

La bambina, l’artista, il folle

A ben guardare, di senso nel mondo, nelle cose, nei discorsi non ce n’è poi così tanto, e anche quando ce n’è non è mai stabile. Le parole dicono ma anche nascondono, indicano la strada ma anche smarriscono, rassicurano ma anche imbrogliano. Ci sono pluri-senso, contro-senso, non-senso, fuori-senso, giochi di senso… L’opera di Lewis Carroll è la prima grande messinscena dei paradossi del senso, come ha sottolineato Gilles Deleuze. Alice è una macchina per deformare il senso abituale delle cose. Una narrazione sgangherata si snoda come puro pretesto per reinventare parole: l’immaginario qui è al servizio della lingua e non viceversa.

L’effetto è quello di una liberazione dalla dittatura della coerenza, del senso, della norma.

Con la sua opera Lewis Carroll dà l’illustrazione e addirittura la prova di tante verità.

La psicoanalisi può render conto degli effetti di verità di quest’opera surreale.

Innanzitutto, Alice è un dispositivo per provocare e verificare effetti di trasformazioni, di variazioni continue. Una ragazzina assiste alla metamorfosi del suo corpo: cresce a dismisura, poi rimpicciolisce, poi ricresce e così via a suo piacimento, a seconda dell’occasione. Una sorta di Fort-Da adattato all’età. Può essere inquietante assistere alle trasformazioni del proprio corpo, soprattutto per una bambina in età puberale, accadono cose troppo grandi e troppo in fretta. Come sarebbe bello poter assumere il controllo di queste trasformazioni con il semplice bere o mangiare qualcosa. Per passare da porte strette o per accedere a luoghi inesplorati… un bel sorso e via, masticare, buttar giù e oplà! Non a caso si incontrano continuamente personaggi che bevono o mangiano, giochi di parole sul mangiare o essere mangiati. Un’azione semplice per affrontare i problemi, che può fare a meno delle incomprensibili regole dell’adulto.

“Questa Alice non sarà pronta ad accettare che le si annunci l’aritmetica dicendole che non si fa di tutta l’erba un fascio o che non si addizionano le mele con i meloni: frottola inventata per rendere ottusi i bambini al più semplice maneggiamento di tutti i problemi, tramite cui si torturerà poi la loro intelligenza” (Lacan). Qui le azioni sono assurde o inconcludenti, i giochi sono senza regole chiare o sensate. La corsa al Caucus consiste nel partire quando si vuole e ci si ferma a piacere. Nella partita a croquet le palline sono dei ricci, le mazze dei fenicotteri, gli archetti dei soldati che continuano a spostarsi da un punto all’altro. Giochi senza regole precise e senza vincitori o vinti. Qui, ogni giocatore e ogni atto deve trovare la sua regola, nella contingenza. Questo gioco del senza-regole e del non-senso acquista diversa luce a seconda della sua provenienza: se è l’adulto a imporre questo capriccioso caos all’infante-adolescente, l’effetto su di questo è angosciante e prossimo alla follia; se è il bambino a proporlo e ad esplorarlo allora diviene gioco inventivo in cui segnalare la propria singolare originalità e farsi riconoscere. Non a caso in Alice i giochi di parole sono senza equivoci, senza conseguenze. In fondo né il testo né la trama richiamano risonanze profonde. “Non vi sono evocati né genesi, né tragedia, né destino” – sottolinea Lacan.

Il gioco infantile senza regole o di pura esplorazione con le parole, la lingua, le filastrocche, con il corpo e le simulazioni di identità, è altra cosa dalle stesse vie oblique percorse dall’adulto, qui indicano per lo più la strada della follia. Non bisogna mettere in continuità bambino-artista-folle. Sotto somiglianze grossolane si nascondono differenze profonde. Il non-senso non è lo stesso. La libertà e il gioco in un caso possono essere prigione e sofferenza nell’altro.

L’assenza di senso è anche smarrimento, perdita di riferimenti, perdita di direzione, è anche sgretolamento del tessuto che crea connessioni e tiene insieme la forma, la struttura delle relazioni, del mondo e del proprio corpo. Il non-senso è anche la non-unità, la frammentazione. Nella follia la mancanza di senso non è un gioco, è una condizione che ha effetti angoscianti, che causa al soggetto sofferenze su diversi livelli: nel suo corpo e nella sua vita intima, nelle sue relazioni sociali. Affinché ci sia un senso è necessaria una continuità nella successione delle parole, dei significanti. È necessario che in un discorso qualcosa tenga in fila i significanti, li colleghi e non li lasci scivolare uno sull’altro continuamente. Se accade si perde il senso, la continuità, l’unità, la comprensibilità. Prendiamo un esempio in cui le singole parole hanno un significato e persino le singole frasi lo hanno, ma il procedere associativo priva il discorso di una qualsiasi coerenza semantica: “Sono andato su un trattore. È una macchina rossa. Anche zia Anna ha una sciarpa rossa.  Sciarpa è una parola che contiene una P. La P è la quattordicesima lettera dell’alfabeto italiano. Due settimane hanno quattordici giorni. Tutti i giorni do da mangiare ai miei pesciolini. Ogni giorno recito preghiere perché non muoiano. Non è una negazione. Muoiano è una parola di sette lettere. Il sette non mi piace, mi mette tristezza, mi fa piangere”. Ogni frase, presa isolatamente, ha senso. Ma la loro successione crea una deriva, uno slittamento continuo che rende impossibile una comprensione coerente. Il senso fugge continuamente. Nella schizofrenia il pensiero e il linguaggio sono trascinati in questa deriva. Le alterazioni del linguaggio, le schizofasie, sono una affezione non un gioco creativo. La persona usa parole inventate oppure parole comuni ma in maniera inedita e con altri significati (neologismi lessicali o semantici), crea connessioni non di senso ma di suono (omofonie, glossolalie), oppure intende e usa le parole nel loro rimando letterale, concreto, materiale (la “scheda intestata” del telefonino viene persecutoriamente intesa come scheda messa nella testa).

In Alice c’è un continuo gioco con il linguaggio. Si gioca, appunto. Si gioca con la grammatica, con la sintassi, ma soprattutto si gioca con le parole a inventarne di nuove o a dare altri significati a quelle esistenti. Una tipologia particolare di parole inventate (neologismi) è quella delle parole-valigia, o parole-baule, o parole-soffietto (jabberwocky), che nell’episodio Humpty Dumpty trovano la loro apoteosi. Sono formate da pezzi di due parole diverse e rimandano a diversi sensi, ad esempio: fumioso = fumare + furioso; sciamanti = sciacalli + amanti; floscente = floscio + pezzente; snark = shark + snake. Ma non tutte le parole inventate sono parole-valigia, ad esempio raths (maiali verdi) non lo è. Non basta comporre una parola da due (crasi), inventare un nuovo animale fantastico fondendo due parole di animali. Jabberwock è sì un animale fantastico, ma è anche una parola-baule che porta in sé diverse qualità e azioni: jabber (discussione animata e volubile) + wocor (rampollo o frutto). Qui la stranezza della forma dell’animale suggerisce la goffaggine del rampollo loquace, logorroico… Carroll inventa giochi immaginari, di lingua, di parole che a loro volta inventano forme, personaggi, azioni.

Lo schizofrenico nelle sue invenzioni non gioca. Antonin Artaud, proprio nel tradurre Humpty Dumpty in francese, ha sottolineato che i giochi di lingua di Carroll non gli piacciono, gli suonano come infantilismi artefatti e di puro svago, linguaggio di superficie che non va in profondità, senz’anima, senza l’angoscia necessaria alla sovversione del senso. Per lo schizofrenico non c’è superficie, non c’è confine, pelle, barriera, esteriorità, frontiera. La superficie è bucata (la percezione stessa del proprio corpo è alterata, ci si sente esposti, non separati, il corpo-colino è la metafora della percezione di avere la pelle, la superficie bucata). Tutto è profondità, tutto arriva direttamente nella carne viva, tutto è corporeo. I suoni, la voce, lo sguardo, il senso… tutto penetra direttamente nel corpo, lo affetta. Non c’è esterno e interno, contenuto e contenitore. Una cosa che arriva dall’esterno passa direttamente nell’interno e viceversa. Ogni cosa si muove come su un nastro di Möebius.

Se non c’è superficie o schermo su cui proiettare, se non c’è distinzione tra interno ed esterno, se non c’è punto di riferimento stabile da cui può srotolarsi il filo del senso…. il linguaggio si apre sul vuoto, ogni parola suona come falsa o sempre insufficiente. La lingua mostra la fatica a significare, mostra la sua instabilità, la sua infermità. Il non-senso divora ogni cosa, rende impossibile la coerenza, la forma, l’unità, la struttura. Frammenta la percezione, i pensieri, il corpo.

Ma Artaud non è solo “schizofrenico” è anche poeta.

Cerca dalle profondità della sua angoscia di “ricostruire” una superficie, un linguaggio possibile. Sovvertendo il linguaggio comune cerca di reinventarne uno proprio in grado di dare unità, forma, articolazione, consistenza. Il suo è il lavorìo incessante del poeta, che rompe con il senso, il doppio senso, il non-senso, applicandosi a riplasmare il linguaggio non per puro gioco linguistico, ma per forgiare una nuova esperienza di sé e del mondo. La glossolalia di Artaud, ad esempio, non è solo una frantumazione del linguaggio ma, più radicalmente, una polverizzazione crudele del corpo, chiamato a inventare un nuovo nesso, una nuova anatomia, una nuova significazione. La glossolalia (vertiginoso impasto di greco, latino, italiano, turco, provenzale) diventa crogiuolo in cui fondere e ricreare. Per Artaud è una lingua inseparabile dalla voce e dal gesto che serve a fondare un nuovo senso, ancorando l’atto enunciativo al corpo. Artaud non vuole produrre una pluralità di sensi, non ha bisogno di un linguaggio che apra a più sensi. L’uso delle proprietà materiali del significante: suono, omofonie, allitterazioni, ritmo ecc. ad Artaud non serve per espugnare il castello del senso e a disperdere i sensi. Bensì a confrontare se stesso e il lettore con un buco. Non si tratta quindi di giocare semplicemente con la materialità significante, quel che si ottiene è al massimo la poesia zump tum tum zump pa pa, in cui il soggetto non incontra nessun buco, ma è anzi sempre più padrone di sé e del mondo che crea immaginariamente e giocosamente. Non è la materialità del significante asemantico in sé, la sua stranezza, la sua bellezza o sonorità a interessarlo. Ma la sua incidenza, la sua capacità di provocare effetti evidenti nel corpo, prima di tutto la capacità di scavare un buco, creare un posto vuoto difronte al quale rimanere sospesi, perplessi. È qui che si produce il vuoto di senso. Ma è chiaro che deve essere un vuoto che si fa sentire nel corpo, poiché solo là dove ci si aspetta un senso… si incontra un buco. Bisogna che ci si attenda un senso per poter essere perplessi della sua assenza. E da qui far scaturire un nuovo senso.

Eppure, Alice non è solo un gioco. Non lo è dal punto di vista di Carroll. Non lo è dal punto di vista di una bambina che legge ed entra nel mondo perturbante delle meraviglie.

Per il pastore Charles Lutwidge Dodgson (vero nome di Lewis Carroll) questo racconto e questa lingua sono un modo per esorcizzare il demone che lo perseguita. Grazie a questa creazione può tenere a bada le tentazioni del maligno: possedere l’amica-bambina ideale, Alice Lidell (ispiratrice del personaggio). Il desiderio verso l’intima amica bambina, come egli stesso la chiama, viene sublimato e camuffato nell’invenzione del personaggio e nel pervertimento della lingua. Appassionato di fotografia realizzerà una ricca serie di ritratti della Lidell e di altre sue amiche. La cattura dell’immagine come surrogato, la possedeva attraverso l’obiettivo e la penna.

Anche per i bambini il mondo di Alice non è mero gioco di superficie. Sapendo, dopo Freud, Klein, Winnicott, la valenza formativa del gioco, non possiamo non riconoscere nell’invenzione di Carroll uno straordinario viatico per raggiungere le inquietudini dei bambini legate alla stranezza delle proprie fantasie, per capire i fantasmi e le angosce legate alle trasformazioni del loro corpo, per collocare il senso di estraneità proprio dell’adolescente nei confronti del mondo degli adulti.

 

LIGETI su  Alice

Tra il 1988 e il 1993 il compositore György Ligeti dedica a Lewis Carroll Nonsense Madrigals (VI)

ecco il II e il V

 

 

LACAN su  Alice

Il 31 dicembre 1966 la radio francese France Culture, ha emesso un omaggio a Lewis Carroll di Jacques Lacan. “Per uno psicanalista, questo libro è un luogo scelto per dimostrare la vera natura della sublimazione nell’opera d’arte. Recupero di un certo oggetto… ”

One thought on “Alice nel paese della psicoanalisi

  1. Ilaria Mariotti ha detto:

    Salve,

    Mi incuriosisce sapere in particolare come si possa tradurre a livello psicanalitico la parte seconda dell’opera di Carroll, Attraverso lo Specchio, soprattutto la parte in cui Alice attraversa lo specchio nel primo capitolo e tutto dall’altra parte è opposto, riflesso, e gli oggetti vivi come gli scacchi o i fiori.
    A mio parere c’è una contingenza con ciò che scrivono Merleau-Ponty e Lacan riguardo lo sguardo cieco delle cose e il voiyerismo del mondo.
    Io sono una studentessa di Belle Arti, e nella mio percorso artistico sto affrontando determinati argomenti, e trovo il suo articolo interessante ai fini della mia tesi.

    Distinti Saluti.

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