Clinica delle passioni

recensione al testo di  Massimo Termini, Clinica delle passioni, Astrolabio, Roma, 2018.

La psicoanalisi di oggi

Sempre di più la psicoanalisi sembra voler eleggere le emozioni, gli affetti, le passioni a concetti cardine della clinica. Il transfert, il controtransfert, la direzione della cura e l’esito stesso dell’analisi sono ricondotti al buon uso degli affetti. Si tratterebbe di permettere l’accesso alle emozioni, la loro gestione, la loro espressione.

Sempre più, infatti, si parla di regolazione delle emozioni, emotional disclosure, traumi emozionali, esperienza emotiva correttiva, permeabilità agli stati emotivi, intelligenza emotiva, rêverie e contenimento affettivo offerti dal terapeuta, rispecchiamento. Come dar conto del fondamento della teoria psicoanalitica dell’attaccamento se non a partire dalle emozioni? Come ordinare gli stadi della teoria dello sviluppo senza l’idea di acquisizioni emozionali che procedono di pari passo a quelle cognitive?

Le nuove teorie psicoanalitiche trovano nelle emozioni un promettente campo di connessione con le neuroscienze e il cognitivismo. Che dire poi di tutta la tradizione fenomenologica, che dalla filosofia alla psichiatria ha potuto riabilitare il soggetto a partire dal suo vissuto, da ciò che sente, che prova nel corpo come sensazione, emozione, affetto, sentimento di sé. La psicoanalisi oggi può, così, recuperare ciò che sembrava aver occultato sotto il velo di un inconscio immateriale. La teoria della pulsione, della libido, oggi appare obsoleta proprio grazie alla nuova luce portata dalla clinica delle emozioni, che consente di poter fare a meno di quelle nozioni vetuste! La maggior parte delle pubblicazioni dell’IPA degli ultimi anni testimoniano questo spostamento, quasi un non volerne più sapere di inconscio, di pulsione.

Non è il caso di questo libro di Massimo Termini.

Affetto e fenomenologia

L’orientamento lacaniano che qui vien fatto valere riparte proprio da Freud, che non aveva dato ai sentimenti, agli affetti un posto particolare nella genesi della psicoanalisi, in quanto lapalissianamente il sentire, l’affetto proprio perché vissuto, esperito non è inconscio. Come riporta Termini: “un affetto quando c’è si sente, si prova e dal momento che lo sentiamo e lo proviamo, costituisce un dato a cui abbiamo accesso, che appartiene alla coscienza. Questa semplice considerazione, di ordine fenomenico, è sufficiente per tagliar corto con ogni tentazione di collocare l’affetto nel posto di un rimosso da far emergere, nell’idea che una volta percepito, finalmente avvertito, una verità è pure raggiunta” (pp. 44-45). Come se bastasse sentire i moti del corpo per cogliere la verità e sciogliere il nodo della sofferenza, del sintomo. La psicoanalisi si sarebbe arrestata ai suoi albori, al metodo catartico! Presupporre un luogo dell’unità, un esserci, una pura presenza del corpo in grado di dirci l’essenziale di noi stessi, è stato il grande miraggio della fenomenologia (filosofica e psichiatrica), non di Freud.

Gli affetti, per quanto fortemente sentiti, non hanno un accesso privilegiato alla verità, non sono fenomeno primario e naturale. Nonostante si creda che l’affetto sia con il corpo in un rapporto immediato, testimoniato dalla palpitazione, dalla sudorazione, dalla trepidazione, è facile constatare come questa espressività sia un campo del tutto equivoco, in cui spesso una emozione sta per un’altra, un moto d’amore sostituisce un odio inconscio. Le stesse reazioni fisiologiche del corpo sono frutto di una storia e un apprendimento del tutto singolari. Anche l’affetto più autentico, più vivace, più apparentemente immediato, va verificato nelle sue determinanti, nelle sue trasformazioni, nei suoi percorsi. Già Aristotele notava come gli affetti obbediscono a una logica discorsiva, significante, non naturale. Lacan, pur stimando il lavoro dell’amico Merleau-Ponty, non si lascerà sedurre dall’assunto fenomenologico, seguirà Freud portando alle estreme conseguenze la logica dell’inconscio non riconducibile al vissuto, all’intenzionalità. Più volte Lacan ha ribadito che il soggetto viene misconosciuto nel fenomeno, che per dare uno statuto corretto all’esperienza soggettiva non possiamo assumere nessuna intuizione della coscienza per il semplice motivo che “il soggetto non può in nessun modo, essere esaustivamente nella coscienza, poiché è, innanzitutto e primitivamente, inconscio, dal momento che dobbiamo considerare come anteriore alla sua costituzione l’incidenza del significante” (Seminario X, p. 96).

Ogni volta si tratterà di verificare quanto nell’affetto c’è di inconscio, ovvero verificare il suo perché, la sua causa, le sue metamorfosi significanti. Al di là del vissuto, della funzione espressiva, comunicativa, adattiva delle emozioni. E qui Termini lo ribadisce: “Quella di passione è la nozione che serve a Lacan per agganciare l’affetto freudiano e allontanarlo dal concetto di emozione […]. Detto in altro modo, l’introduzione del concetto di passione nel sapere analitico corrisponde alla mossa teorica giocata da Lacan per stringere il nodo che lega l’affetto freudiano all’oggetto che gli è proprio, che […] al di là di ogni intenzione di comunicazione, non è altro che il godimento condensato in a” (p. 117). Se Freud per dar conto della dimensione affettiva aveva avuto bisogno di ricondurla alle ipotesi dell’inconscio, della pulsione, della libido, del desiderio, è quantomeno buffo che la “psicoanalisi di oggi” faccia dell’emozione la strada maestra mettendo tra parentesi le ipotesi propriamente analitiche. Riportare l’affetto al desiderio inconscio e alla logica della pulsione (e quindi dell’oggetto) è invece la strada percorsa da Lacan e questo testo lo mostra chiaramente. È questo il filo rosso che Termini qui segue per parlare degli affetti, per esplorare le diverse forme che la passione assume, soprattutto nella clinica.

Il filo rosso del libro

Non è un atlante delle passioni, la filosofia e la psicologia ne hanno forniti molti. Qui le diverse passioni si presentano come emergenze dell’oggetto; a seconda del posto, della forma e del destino che l’oggetto pulsionale assume avremo diverse passioni: vergogna, pudore, colpa, disgusto, angoscia, amore, nostalgia, gelosia, odio… C’è una logica delle metamorfosi dell’oggetto a, una concatenazione in cui emergono particolari punti dell’intreccio tra corpo e linguaggio: “l’emergenza degli affetti, il loro scontrarsi, avvicendarsi, scambiarsi, procedere insieme, sovrapporsi o sostituirsi va di pari passo con le diverse forme che nello svolgimento del discorso inconscio assume l’oggetto a” (p. 118), e poco oltre sottolinea come “nella vergogna, nella colpa, nel disgusto e nell’angoscia, sia la funzione di causa del desiderio svolta da a che è in questione, la sua collocazione nell’Altro” (p. 120).

Passioni dell’essere/dell’anima

La verifica dell’affetto passa attraverso lo svelamento dell’oggetto che gli sta dietro, l’oggetto causa di quello specifico moto dell’anima. È la ricerca di una risposta alle domande: Cosa mi muove? Cosa mi agita? Per ognuno si tratterà di reperire la forma di quell’oggetto (voce, sguardo,…?), le congiunture della sua iscrizione, la sua localizzazione (nell’Altro?). L’oggetto a non ha nulla di naturale, è un’emergenza dell’incontro del corpo del soggetto con l’Altro, è l’effetto dell’incidenza del linguaggio sul corpo; in questo senso non è altro che un vacuolo, una cosa vuota che sorge come effetto di una domanda che di solito si presenta come voce, sguardo, presenza/assenza; è la contingenza di questo incontro, di questa domanda a dare consistenza di godimento, a dare forma e luogo a quel vuoto, che così può incarnarsi come “causa” del desiderio, cioè dei differenti moti, affetti, passioni. A tal punto è rilevante il posto dove si reperisce a da giustificare la distinzione tra “passioni dell’essere” e “passioni dell’anima” che Lacan avanza in Televisione. La distinzione dipende proprio dallo statuto dell’oggetto. Le passioni dell’essere sono quelle che “si dirigono ad a per la via del significante e del sapere, sostenute dall’idea che l’Altro in qualche modo possa rendere conto dell’oggetto pulsionale, che lo porti con sé”; le passioni dell’anima sono quelle che non si dirigono all’Altro, disgiunte dal significante e dal sapere, sono passioni di a (p. 163). Nel legame esclusivo con un oggetto è in gioco un godimento che fa a meno del rapporto con l’Altro, fa a meno della dialettica significante, dell’articolazione del sapere, del desiderio preso nel discorso. Nei cosiddetti sintomi contemporanei della dipendenza, della depressione, dell’isolamento “ogni cosa va bene, il cibo, il sesso, lo shopping, il bere, il gioco, il lavoro, internet e così via, per una soddisfazione che più spinge verso un rapporto diretto e immediato con il godimento e più lascia da parte la parola, il legame con l’Altro” (p. 175). Potremmo anche dire che ci sono passioni orientate dal desiderio e passioni fissate al godimento. In ogni caso è fondamentale reperire il posto dell’oggetto a. Anche laddove sembra che lo stato d’animo sia agitato proprio dall’assenza dell’oggetto, come nel caso dell’angoscia.

L’angoscia

Forse l’angoscia è senza oggetto? Termini nota come già Freud riconoscesse in questo stato d’animo la dimensione di sospensione: “l’angoscia [Angst] ha una innegabile connessione con l’attesa: è angoscia prima di e dinanzi a qualche cosa” (p. 75). Per questo, l’angoscia più di ogni altro affetto è adatto a designare l’oggetto a, prima di prendere una forma (ad esempio di oggetto parziale), qui si annuncia qualcosa che fa enigma al soggetto e non può essere ridotto a sembiante. Se nelle altre passioni l’oggetto prende forma, può essere ricondotto a una immagine o a un significante, qui mantiene vivo il suo portato enigmatico, impossibile da dire e da vedere e quindi reale (nel senso lacaniano). Per questo l’angoscia è l’affetto che non inganna, non si traveste, non si lascia ridurre a una forma, a un significato. Non a caso qui occupa la parte centrale del testo, a mo’ di cardine su cui far ruotare la porta che ci permette di entrare e uscire dalle altre passioni. È anche lo sviluppo più esteso che l’autore dedica a una passione, a partire dal Seminario X che appunto è dedicato all’angoscia e all’elaborazione dell’oggetto a. L’angoscia è all’inizio un segnale che qualcosa su cui il soggetto si reggeva vacilla, la collocazione nell’Altro dell’oggetto comporta che questo Altro abbia una certa consistenza, una certa stabilità. E se “l’angoscia tende a crescere e svilupparsi, è in quanto il soggetto più fa appello alla risposta dell’Altro e più si confronta con l’assenza di garanzia nell’Altro, con l’incapacità dell’Altro di far giungere una risposta definitiva in grado di sciogliere l’enigma che lo assilla” (p. 81). Ma questo Altro enigmatico e inconsistente ha anche la conseguenza di rendere l’essere stesso del soggetto una incognita: “ci sentiamo come trascinati fuori dal nostro mondo perché divenuto irriconoscibile, e insieme al mondo non riconosciamo nemmeno noi stessi. Che vuoi? Ma anche, cosa sono per te? Adesso mi trovo ad essere oggetto del desiderio dell’Altro senza sapere quale oggetto esattamente io sia” (p. 83). Indubbio merito del testo è anche quello di chiarire la differenza, teorizzata da Freud e precisata da Lacan e Miller, tra l’angoscia come segnale e lo sviluppo d’angoscia. Distinzione fondamentale nella clinica per cogliere le congiunture della sua emergenza, la sua funzione di segnale per evitare, arginare, legare lo sviluppo dell’angoscia. Ad esempio, dare consistenza a un sintomo permette di dare un luogo al desiderio, alle sue impasse e alla sua interpretazione, e ciò disangoscia. Sintomatizzare l’angoscia invece che soffocarla o volerla annullare è “la via freudiana che apre alla sua trasformazione. Se in un modo o nell’altro c’è sempre l’angoscia dietro tutti i sintomi (Freud, 1929) e se la formazione di questi ultimi risponde all’esigenza di legare l’angoscia, allora il suo insopportabile sviluppo va di pari passo con una certa assenza o precarietà della dimensione sintomatica. Non trovando nulla che la limita o che la lega, l’angoscia viene in primo piano, avanza e si sviluppa” (p. 104).

Passioni e forme dell’oggetto

Individuato il filo da seguire, l’autore imposta i capitoli del libro facendo sfilare le diverse passioni a partire dall’oggetto che le causa. Si comincia con lo sguardo, lo sguardo dell’Altro, reale o interiorizzato, che sta all’origine della vergogna, del pudore, del senso d’intimità, della separazione pubblico/privato, della costituzione stessa della soggettività come articolazione e separazione dall’Altro. Lacan fa della vergogna il marchio dell’essere. Nell’esporre/nascondere, nel velare/svelare sta una dialettica che l’analista deve saper maneggiare nella clinica tanto della nevrosi che della psicosi. La voce è il secondo oggetto, Termini lo propone come fonte del Super-io e quindi del senso di colpa, riprendendo un testo di Lacan: “La voce dell’Altro deve essere considerata come un oggetto essenziale. Ogni analista sarà sollecitato a darle il suo posto e a seguirne le diverse incarnazioni, sia nel campo della psicosi sia, al punto più estremo della normalità, nella formazione del superio. Forse molte cose diventeranno più chiare quando si situerà la fonte a del superio” (pp. 53-54). Il senso di colpa è un modo in cui il soggetto si implica nella sua sofferenza, nel sintomo, per cui l’indicazione clinica è di non decolpevolizzare il soggetto ma di indurlo a dire, ad articolare ciò che lo fa sentire colpevole, poiché su questa via incontrerà i significanti padroni che lo hanno segnato determinando le sue identificazioni e i suoi modi di godere. Il soggetto senza senso di colpa e senza vergogna è il perverso. Una terza forma che l’oggetto può incarnare è quella del disgusto. L’oggetto disgustoso può essere la sessualità, il cibo, il corpo dell’altro o il proprio stesso corpo. L’effetto è la repulsione, il rigetto, il rifiuto. Lacan parla del disgusto a proposito di Joyce che si disinteressa al suo corpo, se ne spoglia come si fa sbucciando un frutto maturo. L’oggetto causa della passione amorosa non è identificato in una forma particolare (può essere lo sguardo, la voce, l’immagine del corpo, una parte del corpo, un particolare uso del corpo…) ma nella proprietà che assume, ovvero nel fascino, nell’attrattiva che esercita quel qualcosa che il soggetto intravede nell’altro investendolo di una rilevanza, di una preziosità, di una brillantezza che Lacan riassume nella formula “oggetto agalmatico” (riprendedola dal Simposio di Platone). Ma cosa determina l’agalma di un oggetto? J.-A. Miller ha notato che l’amore è sempre condizionato da uno scenario fantasmatico peculiare a ogni soggetto. A seconda dei modi in cui nell’inconscio si sono iscritti i primi e fondamentali legami affettivi del soggetto, troveremo lo stile della ricerca dell’oggetto agalmatico nella scelta del partner. Qui l’autore sottolinea che la scelta amorosa che ricalca l’originario oggetto perduto (la madre) è da Freud identificata nella scelta d’oggetto “per appoggio”, distinguendola dalla scelta di tipo “narcisistico”, dove l’oggetto ricercato rispecchia il proprio Io. In ogni caso scelte dettate dal proprio fantasma, scelte che usano l’altro come mezzo, come personaggio da collocare nella propria scena fantasmatica e soddisfarsene. La prerogativa dell’amore è identificare nell’Altro l’oggetto agalmatico, domandarlo, attendere che l’altro ce lo doni, che si doni nella sua interezza. Sedurre l’altro, piacergli, riverirlo ha come mira assicurarsi quel dono. Ma c’è anche un’altra possibilità: prendere quell’oggetto con la forza, strapparglielo senza aspettare che me lo doni. Anzi, avvertire che l’altro ce l’ha senza averne diritto, lo ha rubato e quindi ho il diritto di strapparglielo, riprenderlo. È il caso dell’odio. “Nell’odio, che avvelena la passione, la mira è dunque puntata sull’oggetto causa, ma un immaginario spesso e denso che fa da velo impedisce di coglierne la collocazione estima, che lo rende sconosciuto al luogo stesso in cui dimora. E non cogliendola il soggetto imputa il mancato ritorno dell’oggetto all’Altro, alla sua cattiva volontà, contro cui si scaglia” (p. 151). Ultima passione dell’essere, accanto all’amore e all’odio, è l’ignoranza. Lacan la considera la più fondamentale, il fondo da cui si sviluppano le altre: “è sul misconoscimento di quel che ci manca che l’amore si sostiene; ed è sempre in ragione di un certo misconoscimento dell’oggetto che si rivolge in odio” (p. 151). Ignorare la causa di ciò che ci muove e che ci porta a domandare all’Altro, in ogni tipo affetto, è appunto ciò che ci tiene collegati alla vita, all’Altro in un confortevole già saputo. Normalmente non si vuole uscire da questa ignoranza, non se ne vuol sapere, si ha orrore di sapere, di svelare il fondo di credenza, di alzare il velo fantasmatico. “Rimediare all’ignoranza vuol dire pertanto attraversare il proprio orrore di sapere, per riconoscervi un reale refrattario a ogni logica fantasmatica, a ogni presa del significante, a ogni esercizio della rappresentazione, e segnare così un punto inedito nell’esperienza di ciascun sesso”. La via dell’analisi richiama il soggetto alla responsabilità di non credere al proprio fantasma, di non crederci troppo (p. 152). Dopo una breve ripresa delle passioni dell’anima, dalla tristezza, alla depressione, alla malinconia nel loro diverso rapporto esclusivo con un oggetto “perduto”, Termini chiude il testo con “una nota d’entusiasmo” per dire qualcosa sul passaggio dalla posizione di analizzante a quella di analista e più in generale dalla posizione di soggetto in balia del proprio fantasma a soggetto che, con quel che resta, può fare buon uso del suo godimento (sinthomatico, secondo l’originale scrittura di Lacan).

 MICHELE CAVALLO

 

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