Parole di carne: da Joyce ad Artaud

di Michele Cavallo

E se le parole non servissero per comunicare? La funzione essenziale del linguaggio sarebbe ben altra. Il poeta cerca di rompere il senso, di torturare il linguaggio, lo fa non per puro gioco linguistico, per generare doppi sensi o non-sensi, ma per far sorgere una nuova esperienza della realtà, per forgiare un nuovo corpo. Due casi esemplari: Joyce e Artaud. Se in Joyce il lavorìo con il linguaggio giunge a creare un nuovo genere letterario, in Artaud la distruzione del linguaggio, mira a costruire qualcos’altro. Dalle macerie, dai brandelli della lingua cerca di ricostruire il proprio corpo. Lingua e corpo sono in lui indistinguibili: l’uno il rovescio dell’altro. Inventa una scrittura vocale, un va e vieni fra lo scritto e la voce, tra grafema e fonema. Una lingua inseparabile dalla voce e dal gesto, una lingua che serve a rifondare l’esistenza stessa nel corpo.

Pubblicato in  Attualità lacaniana. Rivista della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, n° 17, 2014.

Tour de force

Molti schizofrenici ci hanno offerto versioni di destrutturazione, di sabotaggio, di reinvenzione del linguaggio. Schreber, Brisset, Wolfson, Joyce, ne sono solo alcuni dei più noti. Ma nessuna tra queste invenzioni assomiglia alla lingua che Artaud scrive nei suoi Cahiers. Lacan prenderà come esempio la scrittura di Joyce per illustrare lalingua,[1] non quella di Artaud. La scrittura dei due, se pur apparentemente simile nell’essere disabbonata dal senso, mostra due facce diverse sia nella concezione che negli effetti. Se in Joyce l’elucubrazione di una lingua arriva alla potenza del linguaggio letterario e si fa sinthomo, in Artaud è una lingua che si origina dal corpo e vi rimane attaccata. La sua scrittura non solo è irriducibile ad un genere, al senso, alla comprensione, ma non è neppure una scrittura in senso letterario, non diventa opera. Se la scrittura di Joyce rimane con i piedi ben saldi nel simbolico, quella di Artaud ha un piede nel buco del reale e l’altro sul suo bordo.

JoyceL’effetto è che Joyce potrà megalomanicamente godersela la sua lingua dandola da studiare all’Altro, mentre quella di Artaud è un’opera che non opera, almeno non nel senso letterario. La sua scrittura è il suo corpo, non è espressione, arte, né propriamente sublimazione, è semmai il suo rovescio. Miller ha parlato di «corporizzazione». [2] Artaud è soggiogato dal corpo, se ne occupa continuamente, Joyce ne prova disgusto, lo lascia cadere. Ne discende un diverso statuto del godimento e del suo trattamento. È impossibile leggere la scrittura di Artaud senza sentire il suo tentativo di incidere il corpo con la punta della lettera, continuo lavorìo di cesellatura e di scarificazione del godimento. Gli scritti di Artaud (soprattutto i Quaderni di Rodez e quelli d’Ivry)[3] sono come una sonda, in presa diretta, che registra l’operazione di “auto-vivisezione”. È una scrittura chirurgica, un bisturi che incide, supplenza e supplizio ad un tempo. Parafrasando, potremmo dire che la sua scrittura è in grado di mostrarci “l’ombelico del segno”, il punto cieco in cui reale e simbolico si toccano e condividono un litorale, la lettera appunto. Non c’è stato un altro artista che abbia spinto talmente avanti questo tentativo. Corrodere i sembianti fino all’osso del reale. Artaud con Lacan, dunque.

Lacan nel seminario L’insu que sait de l’une-bévue s’aile à mourre, del 1975-6, ha distinto con molta precisione tre forme di esercizio linguistico: 1) la significazione, ovvero ciò che corrisponde alla Bedeutung di Frege (la referenza, la denotazione, significato che connette in modo univoco parola e cosa); 2) il senso, in quanto sempre aperto (la connotazione, significato che connette in modo non univoco parola e cosa); 3) il tour de force del poeta, che rompe con il senso, il doppio senso, il non-senso, applicandosi a torturare il linguaggio (non denota né connota, ma inventa e fa sorgere quel che nomina). Questo terzo campo forza il codice del linguaggio ma non come puro gioco linguistico per generare doppi sensi o non-sensi, ma per forgiare il corpo-godente.

artaud

Da Joyce ad Artaud

Al centro delle pratiche di Artaud c’è sempre stato il corpo. È come se nelle sue invenzioni ci fosse stata sempre la volontà di trovare un rapporto diretto con il corpo, di far coincidere linguaggio e corpo, di incarnare letteralmente il significante. La lettera è concepita da Artaud come «una secrezione di un certo corpo».[4] Il corpo è la vera ossessione di Artaud: pensarlo, scriverlo, immaginarlo, progettarlo. Ma questa ricerca diretta sul corpo, sul godimento, non può che portarlo in fondo alla strada dove incontra il “non rapporto” e quindi il fallimento. In tal senso possiamo dire che Artaud fa un passo ulteriore rispetto a Joyce dirigendosi al cuore stesso del rapporto impossibile. In Joyce la materia del lavoro è sempre il linguaggio, anche quando si adopera per dissolverlo, distruggerlo, astrarlo da ogni referenza e senso. In Artaud la materia del lavoro è sempre il corpo, il godimento, anche quando lavora con la lettera non è alla produzione di un non-senso o un fuori senso o alla creazione di un nuovo linguaggio o di un’opera letteraria, che mira, ma a rifare letteralmente il corpo. Artaud chiama “lettera scritta” la lettera del senso, della referenza, della comunicazione e la oppone alla “lettera viva”. Pur non abbandonando le parole, le frasi, i fonemi, intende piegarli a un nuovo “comportamento” in grado di farli uscire dal corpo senza passare dalla lingua. Ogni segno deve scaturire dalla carne:

Non uno che non sia

Un soffio gettato

con tutta la forza

dei miei polmoni,

con tutto il filtro della mia respirazione,

non uno che non risponda a

un’attività fisiologica reale,

che ne sia,

non la traduzione figurativa

ma qualcosa

come il filtro efficace,

sulla carta materializzata.

Io sono, sembra, uno scrittore.

Ma che cosa scrivo?

Faccio delle frasi.

Senza soggetto, verbo, attributo o complemento.

Ho imparato delle parole,

mi hanno insegnato delle cose.

A mia volta io insegno loro una specie

di nuovo comportamento.

Che il pomolo della tua tufa patino

T’intrameni una bivilta ani rossa

Al lumestino del cadastro uterino. […]

E questo vuol dire che è tempo per uno scrittore di chiudere bottega,

e di lasciare la lettera scritta per

la lettera.[5]

È tempo per lo scrittore di chiudere bottega, e di lasciare la lettera scritta per la lettera. Una vera e propria requisitoria contro la letteratura, assoggettata al discorso, alla narrazione, alla grammatica.

Le parole che utilizziamo mi sono state date e le uso,

ma non per farmi capire […]

è che appunto io non le uso,

in realtà non faccio altro che tacere

non uso parole e non uso nemmeno lettere. […]

da trent’anni che scrivo non ho trovato ancora del tutto

non davvero il mio verbo o la mia lingua,

ma questo strumento che non ho smesso di forgiare.

Sentendomi analfabeta illetterato,

questo strumento non si appoggerà sulle lettere

o sui segni dell’alfabeto,

ci si trova troppo vicini ancora

a una convenzione figurata,

e oculare e uditiva.[6]

Tutta la scrittura è porcheria.

Tutta la razza dei letterati è porca.[7]

In Artaud la scrittura non è letteraria, non arriva a essere metafora, nemmeno “metafora delirante”. Si tratta per lui di trovare un discorso che non sia del sembiante. Joyce ha creato uno stile, una forma letteraria. Joyce è un letterato, Artaud no. L’opera a cui mira Artaud non è costituita dai suoi saggi o dalle poesie, né tantomeno dai Cahiers. È piuttosto Artaud stesso che si fa poema, per frammenti e assemblaggi successivi, si fa corpo in cui fondare la sua esistenza letterale. E probabilmente è questa trasmutazione che, alla fine, si può chiamare l’Opera Artaud. In questo senso non si può più pensare all’opera solo come supplenza e neppure come supplizio, ma come supplemento, marchio a fuoco di una differenza assoluta e irriducibile. Supplemento di sapere (saper-fare e elucubrazione di sapere su lalingua) e supplemento di godere nella lalingua. La saggezza joyciana consiste proprio nell’aver sviluppato un saper-fare possibile e congruo con la lettera.[8] Ad Artaud non rimane che passare da un non-poter-fare fisicamente un corpo a un saper-fare con lalingua. E che cos’è il saper-fare? È l’arte, l’artificio, ciò che dà all’arte di cui si è capaci, un valore rilevante, risponde Lacan.

La lettera e il corpo

I Quaderni sono il deposito di una scrittura inedita. Artaud, colui che si trova irrimediabilmente ad essere hors-corps e hors-pensée, opera qui una distruzione fuori-legge (hors-loi) del discorso. Cerca di rompere l’automatismo del linguaggio, di distruggere ogni senso per farne scaturire correnti vibratorie. Attenzione però a non confondere questa pratica con un esercizio surrealista di non-senso o di ricerca di nuove significazioni. Artaud non ha bisogno di un linguaggio che apra a più sensi. L’uso delle proprietà materiali del significante: suono, omofonie, allitterazioni, ritmo ecc., non serve ad espugnare il castello del senso. Non si tratta di giocare con la materialità significante, quel che si otterrebbe sarebbe al massimo la poesia zang tumb tumb e parole in libertà, in cui il soggetto non incontra nessun buco. Non è la materialità del significante asemantico in sé, ma la capacità di generare una perplessità, un buco di senso in cui precipitare. Con questa scrittura, Artaud cerca di verificare le condizioni in cui un discorso non sarebbe del sembiante, e potrebbe toccare il corpo-godente; cerca allo stesso tempo di bucare l’Altro e neutralizzarlo. Il lavoro sulla lettera ha sempre una doppia funzione in Artaud: costruzione e difesa. Rifare i circuiti del godimento e temperare il reale del godimento che affetta il suo corpo espropriato. Per negativizzare l’Altro, causa di questa espropriazione, deve colpirlo attraverso invettive, sorts grafici, bestemmie, gesti, scherni, maledizioni.

tumbPer rifare il suo corpo e poter agire direttamente sul godimento deve creare una nuova lingua attraverso un tour de force poetico, che permette di cancellare e rigenerare: bordare un godimento impazzito che dilaga, disegnare dei circuiti pulsionali, nominare, localizzare, annodare, tradurre, stabilizzare, condensare fuori corpo un godimento che lo invade, accedere al crogiuolo dove rimestare gli elementi e assemblare una forma di corpo in un ordine possibile. La scrittura è lo strumento privilegiato, ma non da sola. Non possiamo qui parlare della scrittura come sinthomo, piuttosto abbiamo in Artaud tutto un sistema che prende in carico questo processo di traduzione continuo: scrittura, disegno, vocalità, gesto. Una volta distrutto il linguaggio, le macerie che rimangono sul campo di battaglia sono resti, brandelli con i quali costruire la propria lingua e ricostruire il proprio corpo. Lingua e corpo sono a questo stadio indistinguibili. La scrittura serve a fissare questa nuova anatomia. Una scrittura che faccia il corpo a partire dagli elementi base (cacca innanzitutto e poi respiro, grido, colpi, calpestii, vagiti…) e dall’atomo della lettera (aste, geroglifici, croci, schizzi). «Sto inventando un’altra lingua».[9] Inventa a partire dai resti:

Cari amici, quel che avete preso per la mia opera era solo lo scarto di me stesso, raschiature dell’anima non accolte dall’uomo normale.[10]

Privata del suo valore semantico, la lettera diviene residuo, scarto (litter), significante ridotto al suo tratto, isolato, tagliato da ogni rinvio, raschiatura rifiutata dal discorso comune. Quest’altra lingua la crea isolando e facendo precipitare le lettere nel corpo, attraverso la scrittura vocale, le glossolalie, il lavoro con il respiro e il ritmo, le percussioni. È questa la strada maestra per torturare la lingua al fine di estorcergli il godimento, nel punto in cui la parola tocca il corpo. Spesso troviamo nella psicosi questo tentativo di arrivare a una lingua del corpo, basata su fenomeni di codice e su una sorta di “entificazione delle parole”.   Già Schreber parlava di un linguaggio dei nervi. Nel 1925 Artaud scriveva:

niente opere, niente lingua, niente parola, niente spirito, niente. Niente, solo un bel Pesa-Nervi.[11]

Tocca tirar fuori dal corpo le lettere che sono già lì inscritte.

Perché scrivere?

C’è un linguaggio non stampato.

Questo linguaggio è inscritto in un corpo senza lettere date.[12]

Per Artaud bisogna forzare la cosiddetta lingua materna, per rivelare l’in-nato, tirar fuori ciò che in essa non è nato, usando ogni mezzo. Bisogna cercare sotto gli strati del linguaggio una corrente sotterranea di impressioni, corrispondenze, ecolalie. Ribellarsi al linguaggio, alle sue funzioni comunicative e cercare invece le sue possibilità di «scuotimento fisico».[13] Per liberare il nucleo di godimento racchiuso nella lettera, il linguaggio universale deve essere sovvertito, abolito. Con le parole ingaggiare una guerra che deve portare alla loro distruzione, per poter rinascere dalla lalingua. Si tratta dell’invenzione della lingua singolare di Artaud basata sulla glossolalia: una serie di sillabe e parole senza significato che creano una particolare risonanza. La glossolalia come scrittura richiede un accompagnamento della voce, «la lettera è d’ora in avanti concepita nella sua doppia componente – la consonante e la sua vocalizzazione».[14]  Il primo testo in cui Artaud fa uso della glossolalia è kabhar enis – kathar esti.

Si può inventare la propria lingua e far parlare la lingua pura con un senso non grammaticale ma bisogna che questo senso sia valido in sé, cioè che venga dall’angoscia.[15]

Solo l’angoscia, l’affetto che non inganna, può guidare nella ricerca della lalingua. La ricerca di un lessico vivo è portato avanti sia nell’oralità performativa (phonè, soffi, colpi, glossolalia), sia nella scrittura (poetica, anagrammatica, neologica, magica), sia nei disegni (signature, geroglifici, sorts). Reinventa l’uso della scrittura, viola tutte le norme sintattiche, sfrutta tutte le possibilità tipografiche. Analogamente nel disegno, sovverte ogni principio compositivo, mescola scrittura ed immagine, degrada le forme e il foglio stesso. In ogni modo, la reinvenzione della propria lalingua è strumento auto-generativo e lotta per tenere a bada l’Altro. Artaud fa appello al «desiderio di raggiungere il reale, di ridurre l’Altro al suo reale e di liberarlo dal senso».[16] Artaud mostra la doppia valenza di questo desiderio: difesa dal e connesione al reale. L’etica artaudiana è la scelta di inoltrarsi in questo impossibile, aggredire questo litorale, andare molto in là in questa terra di nessuno in cui non si può vincere ma solo fallire: non si può accedere completamente al reale se non al prezzo di una devastazione. D’altronde non ci si può nemmeno difendere completamente dal reale se non al prezzo di una disumanizzazione, di una ebetizzazione;[17] si può invece assumere questo impossibile: «impossibile che è al contempo limite e connessione».[18]

Scrittura vocale

Questa scrittura vocale indica un va e vieni fra lo scritto e la voce, tra grafema e fonema, fra la lettera e la sua ripetizione sonora, scandita da voce e respiro. L’incomprensibile lingua glossolalica indica i confini del simbolico, una lingua inseparabile dalla voce e dal gesto che serve a fondare l’esistenza dell’enunciazione, ancorando l’atto enunciativo al corpo. Caratterizzata dalla ripetizione delle stesse sillabe, dall’uso di sonorità strane che creano una certa logica di assonanze fonetiche, semantiche e di contesto. Ad esempio, questa sequenza è formata da una serie di sillabe fondamentali che rinviano al nome della sua amata Cécile Schramme e al nome stesso di Artaud, nellla sillaba tau, che a sua volta evoca la forma della croce tao, quindi il Cristo, e strumento di tortura di un necromante che brucia anime.….

schratassement de la douleur

schraumtassement de la douleur

christacrement de la douleur

schramtaucrament

Schramm tau cromant

scraum tau cramant

schramm tau schraument

schramm tau schraumment

scraum tau schramment

tout ca au hazard du gouffre de l’envie.[19]

La fusione di sillabe e di parole, che spesso provengono da diverse lingue o idioletti, crea neologismi o neosemantemi, ma soprattutto risvegliano risonanze materiali, omofonie. La parola ha una funzione non più legata alla comunicazione (senso e non-senso) ma ha la funzione di “localizzare” il soggetto, al di là della loro corrispondenza al pensiero, come Artaud stesso scrive in Pesa-nervi:

Tutti i termini che scelgo per pensare sono per me TERMINI nel senso proprio della parola, vere terminazioni […] di tutti gli stati che ho fatto subire al mio pensiero. Sono davvero LOCALIZZATO dai miei termini, e se dico che sono LOCALIZZATO dai miei termini è perché non li ritengo operanti nel mio pensiero. Sono davvero paralizzato dai miei termini, da un susseguirsi di terminazioni. E per quanto in quei momenti il mio pensiero sia ALTROVE, posso solo farlo passare per quei termini, per quanto contraddittori, paralleli, equivoci possano essere, pena in quei momenti il cessare di pensare.[20]

Le parole in quanto pure terminazioni nervose diventano l’unico appiglio del pensiero per localizzare il soggetto. Il reale si localizza in questi S1, nello stato di lettera. La lettera produce, per Lacan, la conseguenza di dare un posto, localizzare il soggetto. È la sua natura di marchio, di tratto unario non immesso in una catena ma “tutto solo”, in grado di indicare una differenza assoluta in cui il soggetto si reperisce al di là dei rimandi significanti. I termini sono appunto “terminazioni” che fermano il pensiero, il senso, lo slittamento semantico, e perciò lo localizzano. A volte usa un martello per battere il ritmo mentre legge i suoi poemi. Percuote e urla formule incantatorie, si dedica a esercizi di respirazione, di ritmi forsennati, di ansimi. Così lavora sui fogli dei suoi quaderni: tratteggia figure abbozzate, incide parole con rabbia, spezza matite, perfora i fogli, li taglia, li imbratta, li brucia. Nella ripetizione piccole variazioni servono a instaurare una catena fonica. La stessa sillaba insiste e incide, scava, ma è accompagnata da sillabe o parole diverse, che proiettano in avanti, creano un movimento, una catena asemantica, cantilene.

Uno dei miei mezzi è di cantare delle frasi scandite, cantilenandole […] un altro mezzo è fendere colpi nell’aria col soffio e con la mano, come si vibra un’ascia o un martello per far sgorgare delle anime sul mio corpo e nell’aria.[21]

Attraverso il ritmo e il ritornello, cerca di rianimare il linguaggio mortificato, di stimolare la corrente vitale nel corpo morto. La percussione, deve trafiggere, forsennare il materiale della lingua, far sentire i colpi di ciò che batte nel corpo, negli interstizi delle parole.

Conosco uno stato fuori dallo spirito, dalla coscienza, dall’essere,

e dove non ci sono più né parole né lettere,

ma in cui si entra per grida e per colpi.

E non sono più suoni o sensi a venir fuori,

niente parole,

ma corpi.[22]

 Allo stesso modo della glossolalia, il lavoro giornaliero con il disegno può essere definito una glossografia.

Nei suoi disegni c’è il tratto singolare della mano, ma anche il suo respiro, la sua bocca, il corpo con le sue pulsioni e le sue tensioni.

Non sono dei disegni, non figurano niente, sono note, parole, insulti, sortilegi, ipotesi corrosive, chiodi ficcati nella carne per far uscire di senno il buon senso:

Sono tutti degli abbozzi […]. Non ho cercato di curarvi i miei affetti, ma di manifestarvi delle verità lineari che valgano tanto per le parole, le frasi scritte, che per il grafismo e la prospettiva dei tratti.[23]

Artaud mostra da subito la doppia faccia dello statuto della lettera come tratto e come significante, estendendo la nozione di tratto anche al gesto fonico del soffio:

c’è nei miei disegni una specie di musica morale che ho reso facendo i miei tratti non con la mano solamente, ma con il raschiamento del soffio della mia trachea-arteria, e dei denti della mia masticazione.[24]

Inoltre, con il disegno costruisce delle “contro-figure” fatte di frammenti, di tratti, di ombre. Il disegno non è una rappresentazione o una nuova figura, è la traccia, il marchio irrappresentabile della contro-figura.

Ciò che io disegno non sono più dei temi d’Arte trasposti dall’immaginazione sulla carta, non sono delle figure affettive, sono dei gesti, un verbo, una grammatica, un’aritmetica, una Kabala intera e che caga l’altro, che caga sull’altro, ogni disegno fatto sulla carta non è un disegno, la reintegrazione di una sensibilità sconvolta, è una macchina del soffio, fu dall’inizio una macchina che allo stesso tempo respira. È la ricerca di un mondo perduto e che nessuna lingua umana è in grado di integrare e di cui l’immagine sulla carta non ne è che un ricalco, una sorta di debole copia.[25]

 L’immagine, quindi, si presenta come resto degradato di ciò che non può essere detto da nessuna lingua. Bisogna ritrovare ciò che sta sotto a immagini e parole, poesia e disegni son fatti della stessa materia: la lettera. Come ha fatto notare lo psicoanalista Hervé Castanet,

Il testo è lettera scritta, il disegno è lettera. Come intendere questo passaggio dalla lettera scritta alla lettera réalisant, nella pratica del disegno, questo passaggio dalla poesia al disegno? Il disegno è lettera, non scritta, ma disegnata, tracciata. Il disegno come lettera, è il disegno divenuto lettera litorale cioè littérale, come la chiama Lacan in Lituraterra.[26]

art

Il disegno-lettera-litorale traccia il bordo del buco del sapere. Ma questo bordo non ha alcuna traccia stabile né confine stabilito. Il bordo che separa reale e simbolico è sfrangiato e, in quanto tale, aperto all’irruzione del godimento. Per Artaud non c’è lettera stabilita – figura, traccia, parola – che possa essere assunta. Il supporto stesso, il suo corpo-godente, in cui si è inscritta è da rifare. Il foglio, il “supporto” materiale su cui si disegna, su cui si incide è per lui succube, ciò che sta sotto, indica la passività della materia ma anche quella del corpo. Ci sono superfici docili, che si lasciano attraversare, perforare, consumare (carta, cartoni, tessuti, gessi, legno, pelle), e altre che sono dure, resistenti (metalli, pietre, ossa). Le superfici docili, assomigliano ai soggetti “normali” passivi, ai corpi che si lasciano incidere, normare e organizzare dall’Altro. Supporti su cui l’Altro ha inciso traumaticamente le sue lettere. Espropriazione congenita che ha creato un corpo organico, giacente, sottoposto, morto. L’unica possibilità che resta al soggetto è di riappropriarsi del suo corpo, rinascere dal supporto ripulito dalle iscrizioni dell’Altro. È su questo stesso supporto che dobbiamo cancellare e riscrivere; per questo Artaud lo aggredisce per cancellarvi le iscrizioni e, nello stesso tempo, lo custodisce per potervi riscrivere il proprio corpo.

L’opera deve compiersi in due momenti:

  1. Forsennare, attaccare il supporto
  2. Rigenerare il supporto

Si tratta di una chirurgia insieme aggressiva e riparatrice, micidiale e amorevole. Scrive Artaud a proposito dei suoi disegni:

Le figure sulla pagina inerte non dicevano nulla sotto la mia mano. Mi si offrivano dei cumuli che non ispiravano il disegno, e che potevo sondare, tagliare, raschiare, limare, cucire, scucire, mutilare, lacerare e sfregiare.[27]

Qual è l’opera che Artaud produce attraverso questo “forsennamento” del tratto e del foglio? L’attacco alla parola, alla figura, al supporto, lascia una traccia nell’opera stessa. È un colpire che fa esistere. L’atto di colpire l’Altro lo fa esistere, se pur forato, bruciato, raschiato, malmenato. Operazione che restituisce una foratura che lascia intravedere il corpo latente.

…là dove il disegno

punto per punto

non è altro che la restituzione di una foratura

dell’avanzata di una perforatrice

nei bassifondi

del corpo sempiterno latente.[28]

I disegni sono macchine perforatrici per liberarsi dall’anatomia imposta e disotterrare il non-nato; sono armi per lanciare all’Altro maledizioni, fatture, sortilegi. Il forsennamento fa nascere un nuovo Altro. L’in-nato al quale si tratta di dare la vita disegnando come un bambino e usando le parole come colpi, getti, è ciò che segna appunto la morte del supporto dato, la fine della sua autorità. La non-opera di Artaud è possibile solo in quanto scrittura lacerata, perforata, maltrattata con tutte le forze, ma scrittura. Come ha sottolineato Derrida,

con lo stesso doppio colpo, conferisce consistenza a ciò che attacca, lo incorpora all’opera, ne fa una parte dell’espressione in via di introiezione, trattiene l’escremento nel momento stesso dell’espulsione, giusto nel momento della separazione, vale a dire del segreto. Ecco il suo segreto, insieme custodito ed esibito, guadagnato ma perduto nella sua esposizione. Il segreto è, come indica il suo nome, la separazione. Partizione e parto.[29]

 L’opera annuncia il suo secondo momento, di rigenerazione del supporto. Qui il disegno è dispositivo generatore.

Questo disegno è un grave tentativo per dare la vita e la esistenza a ciò che finora non è mai stato ammesso nell’arte, l’imbrattamento del soggettile, la penosa goffaggine delle forme che si accasciano intorno a un’idea dopo essersi sforzate un’eternità per raggiungerla. La pagina è lordata e mancata, la carta spiegazzata, i personaggi disegnati dalla coscienza di un bambino.[30]  È questo il nuovo “soggettile”, corpo suppliziato di un nome, possibile supporto di una firma. Riscrittura di un corpo che acconsente al suo destino di lettera.[31]

 

NOTE                                                     

[1] J. Lacan, Il seminario, Libro XXIII. Il sinthomo, Astrolabio, Roma, 2006.

[2] J.-A. Miller, Biologia lacaniana ed eventi di corpo, “La Psicoanalisi”, 28, 2000, p. 97.

[3] Qui il riferimento all’edizione a cura di É. Grossman, Gallimard, 2004, sarà Œuvres, mentre a quella a cura di P. Thévenin del 1956-1994 sarà OC e numero romano che ne indica il volume.

[4] J.-A. Miller, Pezzi staccati, Astrolabio, Roma, 2006, p. 61.

[5] Œuvres, p. 1516.

[6] A. Artaud, Succubi e supplizi, Adelphi, Milano, 2004, p. 176 e sgg.

[7] Œuvres, p. 165.

[8] Quella saggezza che consiste «per ciascuno nel servirsi del proprio sinthomo, della singolarità del suo preteso handicap psichico, per il meglio e per il peggio, senza appiattirne il rilievo sotto un common sense». J.-A. Miller, “Note passo passo”, in J. Lacan, Il seminario XXIII. Il sinthomo, Astrolabio, Roma, 2006, p. 240.

[9] OC, XI, p. 109.

[10] Œuvres, p. 163.

[11] Œuvres, p. 165.

[12] OC, XXIII, p. 139.

[13] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 2000, pp. 156, 163.

[14] P. Bruno, Art-au. La lettera nell’opera di Antonin Artaud, “La Psicoanalisi”, 20, 1996, p. 131.

[15] Œuvres, p. 1014.

[16] J.-A. Miller, Il reale nel XXI secolo, “La Psicoanalisi”, 52, 2012, p. 21.

[17] Il passaggio da lalingua al linguaggio non avviene senza perdite per l’infante e se, come ironicamente notava Lacan, si continua a credere che “si impari a leggere alfaebetizzandosi” (Il seminario, Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2003, p. 274).

[18] J.-A. Miller, L’orientamento lacaniano, “La Psicoanalisi”, 42, 2007, p. 130.

[19] OC, XVIII, p. 226.

[20] Œuvres, pp. 40-41

[21] OC, XI, p. 119.

[22] Œuvres, p. 1351.

[23] Cit. in Artioli U. et al., (a cura di), Antonin Artaud, La follia e l’arte, Il Cardo Editore, Venezia, 1996, p. 69.

[24] Œuvres, p. 1049.

[25] Œuvres, pp. 1513-14.

[26] H. Castanet, Le savoir de l’artiste et la psychanalyse. Entre mot et image, Nantes, 2009, p. 36.

[27] Cit. in J. Derrida, Antonin Artaud. Forsennare il soggettile, Abscondita, Milano, 2005, p. 17.

[28] Œuvres, p. 1514.

[29] J. Derrida, op. cit., p. 104.

[30] Œuvres, p. 1039.

[31] Dalla scrittura dell’ultimo Artaud prenderà ispirazione il movimento Lettrista, che a sua volta genererà molteplici correnti dell’avanguardia poetica e teatrale del secondo ‘900.

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