Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni

Recensione a

Nadia Fusini, Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare, Mondadori, Milano,  2010.

Se c’è un artista che ha aperto la via alla teoria psicoanalitica e continua a indicarne gli sviluppi, è senz’altro Shakespeare. Se c’è una studiosa che è in grado di esplicitare la profonda consapevolezza delle dinamiche umane che le opere shakespeariane contengono, è senz’altro Nadia Fusini. Nel suo recente Di vita si muore, percorre alcuni temi fondamentali per la riflessione psicoanalitica; lo fa attraverso cinque personaggi che per la loro esemplarità costituiscono altrettanti “punti di capitone” per la teoria analitica: Amleto, Otello, Bruto, Lear, Macbeth. Personaggi in cui Shakespeare coagula alcune delle idee cardine della sua epoca che annunciano e fondano la nostra epoca moderna: libertà, volontà, responsabilità, crisi del nome-del-padre. Non si tratta di psicoanalisi applicata all’arte ma di una lettura critica dell’opera che è in grado di produrre degli insight sul funzionamento dell’inconscio, del godimento, del desiderio. Se è vero che il soggetto contemporaneo malvolentieri consegna il suo inconscio all’interpretazione, si porta attaccato addosso un “inconscio reale” e mortifero, l’arte può venire in aiuto della psicoanalisi per ricreare uno spazio, uno iato che rianimi un “inconscio transferale”. Non sembra azzardato affermare che nell’esperienza odierna è l’arte, la letteratura a funzionare come analista dell’inconscio laddove quest’ultimo sembra pietrificato.

La rilettura di Shakespeare fatta dalla Fusini suggerisce, ad esempio, come un certo tipo di godimento sia il principio organizzatore del discorso in un dato momento storico, allora come ora. Le passioni di questi personaggi fanno emergere la struttura dei legami sociali, il linguaggio che li informa, la discordanza tra volontà e desiderio, tra pensiero e azione, l’eccedenza della pulsione senza legge e senza limite (si pensi a Jago o Macbeth). I personaggi appaiono infettati da un Lust che sembra distorcere la bocca in una smorfia di un appetito illimitato che vuole sempre di più, rendendoli sordi e ciechi al bene, cioè all’altro. Il desiderio stesso è un morbo che infetta il corpo dal suo interno, lo corrompe versando il suo contagio in ogni fibra (p. 177). Per questo “di vita si muore”.

Per difendere il loro godimento questi personaggi si faranno falsari, ipocriti, bugiardi, crudeli, disumani; in nome di una passione sovrumana che vogliono perseguire al di sopra di ogni legge. Anti-eroi che agognano una “libertà da ogni legge”, si ritroveranno soli, sperduti, senza fondamento. La Fusini chiede: “si può vivere absoluti, sciolti, s-catenati dalla catena dell’essere?” (p. 186). A volte semplicemente non si ritrova il cardine che teneva in sesto il proprio tempo. E ci si ritrova faccia a faccia con l’ingovernabilità e l’assurdità della vita. In tutte queste traiettorie, l’esistenza appare come scandalo in cui confliggono singolare e universale, necessità e caso, comico e tragico. Shakespeare inventa una lingua in grado di dare consistenza agli aspetti più conflittuali, insensati, paradossali dell’esistenza. Crea opere complesse in cui l’atto di parola è un dispositivo per far sì che l’affermazione e la negazione possano fondersi, i significati diventino ambigui e l’ironia e l’ellissi possano fare da sfondo anche alle più cruente tragedie.

Shakespeare sfida la lingua in una infinita espansione, invenzione lessicale e sintattica: “fino alla creazione di parole nuove, di parole composte, e per dire le cose che sono espande il vocabolario, perché dalle parole sublimi, di etimo latino, trapassi ai monosillabi sassoni, dal linguaggio ieratico dell’eroe alle oscenità del clown” (p. 170). Una lingua capace di dar conto dello scarto, del non detto e non dicibile. Non a caso incontriamo continuamente personaggi che per segnalare lo scarto di ogni pretesa verità devono ricorrere alla follia, perché appunto la “follia è il luogo dello scarto” e in quanto tale è in grado di far cogliere il fuori-senso della verità e l’assoluta differenza della soggettività. La lingua della corte medievale è in grado di nominare caste, clan, ruoli sociali, ma non il soggetto nella sua singolarità. Solo la lingua del fool è in grado di inventare una lingua per fare ciò. L’invenzione di un nuovo vocabolario è fondamentale per poter fissare, ampliare, dire la differenza e dare forma alle passioni umane che altrimenti rimarrebbero nell’indistinto, prede del bruto caso e della dispersio (il male nel lessico di s. Agostino). Ecco perché nella lezione di Lacan il ben-dire è l’unica etica possibile per la psicoanalisi. Un be-dire capace di dare voce alla singolarità, allo scarto, alla verità (che è sempre non-tutta).

In questa missione Shakespeare appare come il massimo esponente di una “scienza nuova”, più di Cartesio e Bacone. Attraverso l’invenzione di un nuovo linguaggio può analizzare i conflitti della mente dell’uomo, i meccanismi del bene e del male colti nella singolarità della situazione e dell’esperienza soggettiva, e il medium drammatico si rivela il più adatto per tale inchiesta. È in grado di cogliere il passaggio epocale che investe la posizione soggettiva e che apre una nuova dimensione tragica dell’essere. Ora l’eroe tragico non è più in lotta con Dio o le potenze superiori, ma con sé stesso, con un sé che è intimamente diviso, doppio, e che non riesce a cogliere, a fronteggiare. Ora l’eroe tragico scopre il male in sé e a questo cerca di rispondere. La grazia, ovvero la pienezza dell’essere, gli è ormai preclusa. La passione dominante diventa, in questo teatro, l’angoscia. Angoscia per un Dio assente che lascia l’eroe solo e lo condanna a una erranza perpetua alla ricerca di un impossibile equilibrio tra libertà e credenze certe. Una volta rotti gli ormeggi tutto si “scatena” tutto precipita, scorre, si scontra secondo la legge imprevedibile del caso. L’estasi di questo vorticoso movimento in uno spazio aperto e senza centro, si converte presto nell’angoscia dell’infinito. Nell’immensità cominciano a naufragare i cuori e i pensieri (p. 435).

In queste tragedie l’eroe si trova faccia a faccia con le diverse declinazioni del “male di vivere”: il caso, l’incerto, l’improvviso, l’imprevedibile, l’ingovernabile, l’assurdo, il senza limite (in una parola: il Reale). L’incontro con il male produrrà: la morte dell’anima in lady Macbeth, in Bruto; lo spreco, il mysterium iniquitatis, in Macbeth, in Otello; l’abuso di sé in Macbeth, in Lear, in Amleto; e l’angoscia, affetto comune a tutti loro. E produrrà anche diverse risposte singolari come difesa da questo male di vivere. Risposte che sono mostrate in soluzioni che prendono varie forme: l’abitudine, là dove la ripetizione sembra poter raffreddare, anestetizzare la paura e l’angoscia; la pietrificazione, rendendosi insensibili si è liberati da timori, freni, scrupoli; l’indifferenza e l’imperturbabilità, per non lasciarsi toccare dal reale; la frenetica azione, che non lasci spazio al pensiero e al sentire, ma che sia in grado di annullare la divisione soggettiva in un atto senza resto; l’onnipotenza (overreacher) in grado di oltrepassare ogni limite; l’invocazione della nebbia e del buio, capaci di nascondere l’orrore del proprio atto; l’assunzione di una maschera che permette di recitare e non identificarsi con l’atto tragico, di non soffrirne o assumerne la responsabilità. Tutte risposte che non riescono a tenere in equilibrio i nostri eroi su quell’abisso che ormai si è spalancato all’interno di loro e non potrà più richiudersi.

One thought on “Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni

  1. ANNAMARIA DE BELLIS ha detto:

    QUESTO SCRITTO VA RILETTO RIPETUTE VOLTE.
    AD OGNI MODO QUELLO CHE CERCO E’ INCONTRARE UN GRUPPO DI ANIME CHE VOGLIANO STARE E VIVERE IL TEATRO 24 ORE SU 24.
    GRAZIE 3453379804
    ANNAMARIA DE BELLIS

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