Estetica lacaniana

Esiste una estetica lacaniana? E più in generale, esiste una estetica psicoanalitica così come esiste un’etica della psicoanalisi?

Già nel porre l’argomento si apre una divaricazione: così come da una parte possiamo intendere una psicoanalisi che parla e si interessa dell’etica, dall’altra c’è un’etica propria della psicoanalisi. Allo stesso modo, da una parte c’è una psicoanalisi che parla e si interessa di estetica, di arte, magari la interpreta, dall’altra però c’è un’estetica propria della psicoanalisi. Cosa vuol dire?

Recensione a  François Regnault, Conferenze di estetica lacaniana e lezioni romane, Quodlibet, Macerata, 2009.

È in questo senso che mi sembra il testo di Regnault dia un contributo essenziale e inedito. Il libro è diviso in due parti: la prima è composta da quattro conferenze “spagnole”, la seconda parte è composta da tre conferenze tenute a Roma nel 1998. Nella prima, tratta della concezione lacaniana dell’arte in generale e della catarsi, del problema della dicotomia analisi/sintesi in Freud, dell’antifilosofia secondo Lacan. Nella seconda, della diversa concezione dell’interpretazione in Freud e Jung, della differente lettura del Mosè in Freud e nella scuola di Warburg, della concezione del teatro in Freud e in Lacan. Nel complesso tratta quindi in maniera interconnessa tre grandi campi: l’arte, la scienza, la filosofia. In realtà Regnault punta a un orientamento “letterale” che cerca di strappare l’arte al commento e all’ermeneutica e a estrarre la filosofia dalla storia delle idee, riconducendo ambedue all’articolazione significante e alla lettera, al di là, appunto, dell’interpretazione e al di là dello sviluppo tematico. Tale movimento fa avanzare la psicoanalisi. Poiché, in ogni caso, non si tratterà di applicare la psicoanalisi all’arte (per interpretare l’opera o l’artista), ma l’arte alla psicoanalisi, in quanto è l’artista a precederla e ad aprirle la strada. Hanno aperto la strada a Lacan: Shakespeare (sulla questione del desiderio l’Amleto), Sofocle (sulla condizione tra le due morti l’Antigone), Holbein (sull’anamorfosi e lo sguardo gli Ambasciatori), Claudel (sulla condizione tragica del soggetto moderno), Joyce (sulla supplenza, il sinthomo), Gide (sull’amore e la perversione). L’arte quindi, in quanto estetica della psicoanalisi, ma non in quanto “sistema lacaniano delle arti”.

Conosciamo la tesi del Seminario VII: l’arte sarebbe una certa modalità di organizzazione intorno al vuoto, a das Ding. La religione una modalità per rispettare questo vuoto. La scienza un modo per tappare il vuoto. Ma qui è l’arte che ci interessa, cioè quel particolare modo di circoscrivere il buco e non è un caso se il modello per eccellenza di questa pratica è l’arte del vasaio: costruire una forma intorno a un vuoto, che lo contenga e lo definisca. Ma come collocare a partire dalla Cosa, arti quali la pittura e ancor più la poesia, la letteratura, la musica? In che modo circoscrivono un buco, così come è facile dire per l’arte del vasaio, per l’architettura e la scultura? La poesia dell’amor cortese ben esemplifica in che senso al centro della creazione ci sia la Cosa, perduta, inaccessibile. Come sottolinea Regnault: “il vuoto non ha soltanto una funzione spaziale ma anche simbolica. È dell’ordine del reale e l’arte si serve dell’immaginario per organizzare simbolicamente questo reale. È tra il reale e il significante” (p. 31). Sostiene che a voler essere precisi si potrebbe dare una scansione delle arti a partire da due principi: il vuoto e l’anamorfosi. Con il binario del vaso e del teschio, potremmo riscrivere la storia dell’arte. È appassionante la ricostruzione che l’autore fa del testo di Freud sul Mosè di Michelangelo, letto e corretto attraverso la critica di Erwin Panofsky. Intanto, Regnault rileva una cosa sorprendente: per Freud in un dipinto è più facilmente rintracciabile il fantasma, mentre in una scultura ciò che è più in evidenza, nei dettagli, è il sintomo. Infatti nel Mosè Freud cerca il dettaglio, il tratto inosservato, lo scarto, cerca di indovinare l’atto mancato, ma trascurando l’humus neoplatonico in cui l’opera è stata concepita, Freud manca l’interpretazione, che risulta perciò “aggiuntiva”. Mosè non è un caso clinico, non c’è nulla in lui che zoppichi, proprio perché non parla.

Nel capitolo dedicato all’arte teatrale, l’autore commenta lo scritto di Freud Personaggi psicopatici sulla scena, utilizzandolo come punto di riferimento per articolare la diversa concezione del teatro di Lacan. Per il padre della psicoanalisi il mondo moderno è radicalmente diverso dal mondo della tragedia greca, il disagio della civiltà odierna contagia il teatro e lo destina a una impossibilità. A questo progressismo (seppur pessimista) Lacan sembra opporre una aeternitas sia della funzione dello spettacolo che della fruizione dello spettatore, proprio a partire da quelle costanti che Freud aveva individuato: l’eterna funzione della parola legata alla impossibilità di dire tutta la verità, il processo di identificazione, la catarsi, l’illusione come attenuazione della sofferenza, la mimesis, la rappresentazione del conflitto. «Per Lacan, fin dall’inizio dell’arte del teatro un dispositivo è stato messo a punto per l’eternità, e noi, da un punto di vista storiografico, non possiamo reperire altro che spostamenti lungo il suo corso. All’evoluzione, secondo Freud, che preconizza una sorta di decadenza, Lacan preferisce lo spostamento (Verschiebung), che è, precisamente, proprio uno dei processi primari del sogno scoperti da Freud. In questo luogo, esiste un luogo propriamente teatrale, con dei posti e degli spostamenti» (p. 181). Abbiamo ricordato sopra come per Lacan esistano solo due movimenti nella storia dell’arte, così l’unica scansione temporale del teatro sarebbe una dialettica tra il vuoto e l’anamorfosi. Spostamento che si gioca in ogni epoca e non è legato a una evoluzione culturale o a una progressione storica. Non c’è più Storia del teatro ma aeternitas di questa scansione. C’è il vuoto nel suo spazio e c’è l’anamorfosi nelle sue rappresentazioni (anamorfosi del teschio: tragedia, anamorfosi del fallo: commedia). Tuttavia non si tratta dell’idea platonica di eternità. Piuttosto si tratta della permanenza ripetitiva dell’inconscio, è la logica del suo stesso funzionamento, come un linguaggio.

A confortare questa lettura ci viene incontro il saggio che Regnault dedica alla “catarsi” aristotelica e a come è stata ripresa da Freud e Lacan. Prima di tutto chiarendo che non bisogna applicare direttamente al teatro la teoria delle pulsioni, degli affetti, dell’identificazione per comprendere la catarsi aristotelica, in quanto non sono i “sentimenti” degli spettatori a produrre quell’effetto ma le cose paurose e pietose rappresentate. È nello specifico linguaggio dell’azione drammatica che va cercata la catarsi, non nella testa o nei cuori degli spettatori. In tal senso Regnault parla di “catarsi generalizzata” in quanto il suo funzionamento rimane sempre lo stesso nelle diverse epoche. Questa posizione non va confusa con una “universalizzazione” di contenuti, di affetti, di significati, di simboli. Proprio su questo terreno si era consumato lo strappo tra Freud e Jung, come mostra qui il saggio: Freud anti-allegorista nell’interpretazione (contro Jung). A partire dal carteggio tra i due, pubblicato postumo, l’autore individua l’incompatibilità dell’utilizzo della mitologia, del simbolo, delle immagini, degli archetipi da parte di Jung con la concezione dell’inconscio freudiano e dell’interpretazione. Freud aveva già affrontato aspetti di tale questione nei termini di analisi/sintesi. Proprio su questo terreno aveva avuto modo di impostare l’approccio della psicoanalisi a partire dalla logica, dal significante, dalla parola e non a partire da analogie, da immagini, da sintesi. Proprio il regno delle immagini, il sogno, gli era servito per scoprire la sua struttura di linguaggio, fatto di parole che le immagini stesse sottendono. L’ordine analitico è quello della risalita verso i principi, l’ordine sintetico è quello della discesa verso le conseguenze. Nella psicoanalisi non può che essere privilegiato il primo. La concatenazione causale – sottolinea lo stesso Freud – può essere sempre individuata con certezza se si segue la direzione dell’analisi, mentre viceversa la sua previsione nella direzione della sintesi è impossibile, a meno che l’analista non prenda la strada dell’influenzamento per suggestione. Ecco che l’interpretazione stessa non può seguire la strada della sintesi, della chiusura, della soluzione data (simbolicamente, miticamente o sensatamente). È solo nell’aprés-coup, nei suoi effetti che l’interpretazione trova la sua verifica.

Infine il saggio L’antifilosofia secondo Lacan, chiarisce l’atteggiamento apparentemente ambivalente di Lacan verso la filosofia. Se da una parte, infatti, Lacan ha ammirato, studiato, ripreso filosofi quali Platone, Aristotele, Cartesio, Hegel, Kant, Kirkegard, Heidegger, Merleau-Ponty… per altri versi è sempre stato diffidente del sapere sistematico, universitario che spesso fa della filosofia una forma del discorso del padrone. Ma la formula di antifilosofia serve soprattutto a ribadire che la psicoanalisi non è una Weltanschaung, una visione del mondo, ma una pratica clinica. Allo stesso modo non è una teoria dell’arte. Nello specifico, propone questa parola negli anni ’70, l’anti-filosofia vuole essere la risposta all’anti-psicoanalisi di Deleuze e Guattari (L’anti-Edipo).

 

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