L’Antigone di Lacan. L’etica

L’etica della psicoanalisi non ha a che fare con la ricerca del bene. Così come la tragedia greca, che fa emergere un altro senso dell’etica. Ci dice che il soggetto non cerca necessariamente il proprio bene né quello degli altri, che esiste al fondo del cuore umano una tendenza che può prende i toni dell’imperativo. Un imperativo che non è assolutamente fondato né sull’utile, né sul piacere, né sul bene supremo. La tragedia ci mette sulla strada di questa altra etica e non è un caso che Freud sia partito da Edipo, padre-fratello di Antigone.

Pubblicato su   Cenobio. Rivista trimestrale di cultura, n. 1 anno LXII, gennaio-marzo, 2013.

Antigone1

L’etica della tragedia ovvero della psicoanalisi

Antigone, l’adolescente che vuole azzerare tutto il male che si è riversato sulla sua stirpe e sull’intera città di Tebe. Creonte, il vecchio zio re che non capisce e si attiene alle leggi scritte. Il cadavere di Polinice, che attende sepoltura per spezzare la catena di causa effetto, sotterrare insieme a lui il passato sciagurato.

Jacques Lacan parla dell’Antigone nel 1959-60 in un seminario che intitola L’etica della psicoanalisi.[1] Tra tantissimi personaggi reali e immaginari nella storia dell’occidente, sceglie questa ragazzina per parlare dell’etica? Forse che Antigone incarna l’Ethos aristotelico del carattere retto, dell’ideale di ordine, di armonia tra bene proprio, bene comune, bene supremo? Sembrerebbe di no. Allora Lacan ha preso un abbaglio. Non direi.

L’etica della psicoanalisi non ha a che fare con la ricerca del bene. Non è una pedagogia che vuole condurci sulla buona strada, passando per i vicoli ammiccanti del piacere e per gli snodi obbligatori della ragione. L’esperienza psicoanalitica ci ha insegnato che questa strada sfocia spesso nella trasgressione e in campi minati, proprio laddove pensavamo di muoverci su un terreno sicuro e familiare. La psicoanalisi ha scoperto che nel giardino di casa sbocciano i fiori del male. L’Antigone ci parla del giardino di casa in cui sono spuntati uno dietro l’altro fiori tossici, e ci dice che una certa realizzazione del proprio destino, non può che compiersi in una scelta di morte. Antigone fa emergere un altro senso dell’etica. Ci dice che il soggetto non cerca necessariamente il proprio bene né quello degli altri, esiste al fondo del cuore umano una tendenza, anzi un “desiderio” che prende i toni dell’imperativo. Un imperativo che non è assolutamente fondato né sull’utile, né sul piacere, né sul bene supremo.[2] L’anelito di Antigone coincide con la morte (propria e di altri). Ecco come sintetizza Lacan: «in un’epoca che precede l’elaborazione etica di Socrate, Platone e Aristotele, Sofocle ci presenta l’uomo e lo interroga sulle vie della sua solitudine e situa l’eroe in una zona di sconfinamento della morte sulla vita, nel suo rapporto con ciò che qui ho chiamato la seconda morte. Rapporto all’essere che sospende tutto ciò che è correlato alla trasformazione, al ciclo delle generazioni e delle degenarazioni, alla storia stessa, e ci porta ad un livello più radicale di tutto».[3] E cosa troviamo a questo livello più radicale di tutto il resto? Troviamo il rapporto dell’essere umano con ciò che motiva la vita stessa, la spinta alla vita. Troviamo il desiderio di giungere al luogo centrale della propria esistenza da cui tutto si genera. E se a questo luogo non possiamo accedere allora la vita non ha senso. Questa tragedia ci illumina sull’etica ovvero sul desiderio generatore, sul desiderio che causa e fonda la vita propriamente umana. Se ci rivolgiamo alla tragedia, non è quindi per estrarne una lezione di morale, per imparare cosa fare nella vita per cavarsela. Non si tratta di avere delle risposte alla domanda sulla felicità o sul Sommo Bene. La tragedia non ci illumina su come agire e cosa fare per essere felici o come essere un cittadino modello. Non è scritta per esaltare le mirabili virtù e le risorse dell’essere umano. Ma per confrontarlo con un limite e su ciò che spinge alla vita, pur non avendo rimedio alla morte. Ecco la portata etica che Antigone incarna contro Creonte e contro la “felicità” della Legge. L’etica del rito tragico non era la “scienza della felicità” e del “bene comune” così come sarà più tardi in Aristotele. L’etica tragica è l’esplorazione del limite e di ciò che è impossibile per l’essere umano. Non a caso, sempre le diverse tragedie mettono in campo gli esiti di un oltrepassamento di un limite (qualsiasi esso sia). Quelli di Sofocle sono personaggi situati fin dall’inizio in una zona al limite tra la vita e la morte. Personaggi mostrati sempre a-fine-corsa. Su una soglia. Questa tragedia, in particolare, mostra l’oltrepassamento del limite non solo da parte di Antigone con la sua ferrea determinazione. Ad essere eccedente, fuori misura è anche la ragione di Creonte. Volendo il bene di tutti, cioè preservare la legge della comunità pensata come universale, sovrana, come “sommo bene”, supera quel limite ed egli stesso diviene un fuori-legge. Ascoltiamo la sua ostinata esaltazione della legge e dell’ordine. Esaltazione che non prevede dubbi, eccezioni, spazi di rigenerazione.

A colui che la città ha scelto per capo, bisogna obbedire in tutte le cose, siano giuste o no.

Non esiste male maggiore dell’anarchia: essa distrugge la città, sovverte le famiglie, sparpaglia

l’esercito in battaglia, la disciplina salva. Ecco perché bisogna difendere l’ordine (vv. 670 s.).

L’errore di Creonte è quello di volere il bene di tutti. Creonte sembra aver letto in anticipo l’Etica Nicomachea di Aristotele. Ci sarebbe una regola della ragione, universale, che garantisce il bene comune. Le leggi sono la nostra salvezza, dice. Ma la logica della tragedia sembra farvi obiezione, prevenendo Aristotele. «Il bene non può affatto regnare su tutto, senza che compaia anche un eccesso, delle cui conseguenze fatali la tragedia ci avverte», sottolinea Lacan (p. 328). La legge, nella sua pretesa universalità, diviene inevitabilmente inumana, aberrante ed essa stessa trasgressiva, sadica (Lacan dedicherà a questa ambivalenza uno scritto dove coglie il fondamento sadiano dell’imperativo morale kantiano: Kant con Sade). È Antigone stessa a ricordarlo a Creonte: se lei ha trasgredito le leggi della città, lui ha trasgredito «le leggi non scritte ed eterne degli dèi» (v. 453). La tragedia è lì per segnalare e far emergere il limite, l’impossibilità sia della ragione universale di Creonte, sia del desiderio assoluto di Antigone. Sempre l’oggetto della tragedia è questo limite estremo e misconoscerlo, negarlo, attraversarlo comporta follia («questa mia follia la devo ad un folle» v. 470, risponde la fanciulla allo zio re). Insomma, né il piacere e neppure le tendenze organizzatrici, ordinatrici, conservative, unificatrici bastano a dare ai bisogni e alle mete dell’essere umano la mappa del suo procedere. La psicoanalisi introduce il paradosso dell’etica: al di là del principio di piacere e di bene, c’è qualcosa che nella vita può preferire la morte. Non c’è bene, felicità, armonia o leggi scritte che funzionano in prossimità di questo “qualcosa”.[4]

Quello tra Antigone e Creonte è un conflitto tra due diritti? Non credo. Non si tratta di conflitto tra due diritti, quello della Legge (Creonte) e quello della famiglia (Antigone). Né della fredda ragione di stato contro la pietas familiare.

Il desiderio puro

Abbiamo visto su quale limite si infrange la ragione di Creonte. E Antigone con quale impossibile si confronta? Diciamolo subito: quello del desiderio puro. Antigone ci mostra il legame tra etica e desiderio. Ci parla del desiderio che muove la vita. In particolare di ciò che ci è consegnato dalle generazioni precedenti, del desiderio di cui ci fanno eredi e custodi.

Ah, quell’atroce letto di mia madre, la sventurata,

sciagurati amplessi di lei con mio padre che era carne sua.

Da chi mai sono nata (vv. 857 s.).

Quale futuro ci è dato se siamo nati da una de-generazione? Cosa ci è dato desiderare se, come Antigone, siamo figli di una generazione sciagurata? Dove troviamo la causa, il seme per far germogliare una nuova speranza? Dove ci è dato imparare la promessa di una vita nuova e degna, di una strada da poter percorrere con compagni onesti? Dove ci è data la fiducia in rapporti amabili e pietosi? Quale futuro ci promette un marchio empio, degradante, sventurato?

Ma perché questo legame con il desiderio dei nostri genitori è così importante? Per la psicoanalisi il desiderio dell’Altro è fondamentale per la costituzione stessa della soggettività. Se il desiderio dell’Altro è malato, marcio, enigmatico, osceno, oppure assente, inoperante, il desiderio dei figli sarà perverso o de-vitalizzato. La vita stessa sembra venir meno se non è sostenuta da un desiderio fondante dell’Altro, in grado di dar senso e continuità alla linea del tempo che mette in rapporto: passato-presente-futuro. Se questo rapporto è reciso alla radice… non ci saranno oggetti degni e desiderabili a cui rivolgere la propria attenzione, persino il cibo o le relazioni sociali saranno niente. Ci sarà un solo desiderio operante, un desiderio che vuol tornare alla radice e interrogare quell’enigma, sciogliere quel nodo, rifare… «Antigone ci fa vedere il vero punto di mira che definisce il desiderio».[5] Il punto di mira estremo, il desiderio puro, radicale, assoluto. Ci mostra l’al di là del principio di piacere e l’al di là degli oggetti del desiderio.                                         Cos’è dunque questo desiderio puro di Antigone? Figlia di Edipo, che è padre e fratello, e di Giocasta, che è madre e nonna. Generata da un desiderio incestuoso ed empio. Può il suo desiderio fiorire su quello del padre e della madre? Questa bimba (epais) prediletta dal padre ha in odio la madre, o meglio odia il desiderio della madre, in quanto questo desiderio rappresenta l’impurità, l’incesto e il crimine. Il desiderio puro di Antigone è la risposta al desiderio impuro di sua madre. Il vero antagonista di Antigone non è Creonte, è la generazione sciagurata, è il desiderio impuro. È questo il motore della tragedia, che non a caso si apre con l’evocazione di questa generazione empia e caotica. Evocazione che più volte ritorna. Come dare fondamento al proprio desiderio a partire da una simile generazione? Figlia di un desiderio immondo, empio, inassimilabile, come confrontarsi con tale eredità? Antigone non può che essere contro la vita, contro la generazione. Infatti, rifiuta il desiderio femminile, generatore, di madre. L’etimologia stessa del suo nome sembra annunciare il suo destino: (anti ≈ non e gen ≈ generare). Antigone erige la sua purezza, la sua verginità contro il desiderio materno. Morirà perché non può e non vuole essere donna e madre. Dovrà purificare quel desiderio, a costo di scendere nell’Ate, per sempre.[6] Antigone si vuole pura, e in effetti la vediamo come la bimba, la fanciulla casta e innocente. Ma proprio per questo è figura inumana. Non corrotta, non toccata dal desiderio di vita. Lei è pura ed è già morta in vita, lo sa e lo dice alla sorella: «la mia vita già da tempo è morta» (v. 560). La purezza rimanda sempre a qualcosa di tombale, in cui regna l’eterno, senza prima e senza dopo. È la purezza del cadavere o delle vergini vestali incorrotte e caste. La purezza richiama il bello assoluto e il sublime (appena prima del limite ultimo), che alludono in mille modi diversi al tombale. Il romanticismo ci ha abituati a questa associazione. Quando nella vita l’essere umano è preso dal desiderio di purezza, si approssima alla follia, al delirio, alla morte. Anche Creonte invoca la propria purezza, quella della Legge incorruttibile. Lui si ritiene puro nel consegnare Antigone alla tomba (si definisce agnoi, puro, casto, v. 889). Anche Creonte è folle per la sua inflessibilità. Anche lui, come Antigone, è già morto in vita, però lui non lo sa.

L’inflessibile

Mossa da un desiderio puro, Antigone sarebbe quindi inumana![7]                                                                                                                                                                                                     Antigone si pone fuori dai limiti umani e civili, il suo desiderio punta al di là di questi confini, mira al tombale, all’Ate. Antigone è trascinata da una passione cieca, inflessibile. Sullo stesso asse troviamo in lei passione-purezza-sacrificio. Brama l’impossibile. Ha cuore ardente per cose che fanno rabbrividire. È priva di pietà e timore, irremovibile anche con la sorella che tratta quasi come nemica. Prendiamo ad esempio i suoi dialoghi con Ismene. Già all’inizio la sua ostinazione non le permette alcuna concessione o dialettica. Si intravede qui la cifra inumana del desiderio radicale.

Ismene – Almeno fallo di nascosto, non dirlo a nessuno.

Antigone – No, anzi, gridalo ai quattro venti, mi sei ancora più odiosa se stai zitta.

Ismene – Hai un cuore ardente, tu, per cose che raggelano.

Antigone – So di piacere a chi voglio piacere.

Ismene – Se lo potrai! Ma brami l’impossibile.

Antigone – Ebbene mi fermerò solo quando non avrò più forza.

Ismene – Ma già dall’inizio non bisogna cercare l’impossibile.

Antigone – Se parli ancora così mi verrai in odio. Ti odierà anche il morto, e giustamente.

Lascia dunque che io con la mia follia affronti questa terribile cosa.

Non mi capiterà nulla di così grave da impedire che io muoia nobilmente.  (vv. 85-98)

E più avanti:

Ismene – Cosa posso fare adesso, per aiutarti?

Antigone – Salva te stessa, non ti vieto di scampare con la fuga.

Ismene – Me misera, sarò privata della tua sorte.

Antigone – Tu scegliesti di vivere, io di morire.

Ismene – Ma ti ho detto le mie ragioni.

Antigone – Le tue sono le ragioni del mondo, le mie di un altro mondo.

Ismene – Ma adesso siamo uguali nella colpa.

Antigone – Fatti coraggio: tu sei viva. La mia vita già da tempo è morta.  (vv. 552-560)

Già da tempo la mia vita è morta. Da tempo, da quando? Dal momento della sua stessa nascita. Nata da un desiderio impuro, il suo è un desiderio morto, cioè votato alla purezza. Il desiderio umano e vivo è sempre non puro. L’eroismo tragico di Antigone consiste proprio nel dare forma inumana a questo desiderio che può realizzarsi solo nell’Ate. La sua passione ostinata la conduce al luogo della dissoluzione. Non è il caso di idealizzare quindi il desiderio di Antigone. Proprio perché mostra la faccia oscura del desiderio, cioè la pulsione di morte.[8]

La sepoltura, l’azzeramento

Una forza estranea spinge oltre la vita, oltre il bene, oltre la ricerca della felicità. Spinge a oltrepassare la soglia e a lasciarsi alle spalle questo mondo in cui tutto è già dato, fatto, stabilito, articolato in una catena di cose, rappresentazioni, significati, ragioni. Un mondo, per Antigone, non abitabile, macchiato dall’empietà. Ecco allora che dovrà fare un viaggio a ritroso, cercare il luogo neutro dove il mondo stesso si origina prima di produrre significati, leggi, effetti. La sepoltura di Polinice è l’atto che le consentirebbe di affermare il grado zero di ogni valore e di ogni distinzione, l’atto che metterebbe fine alle leggi di causa-effetto e alle sciagurate colpe della stirpe dei labdaci; è l’occasione per poter azzerare, se Creonte e Tebe le dicessero: sì, sospendiamo le ragioni del mondo! Invece, per questo atto sarà condannata a essere sepolta lei stessa. È sempre faccenda di sepoltura in Sofocle.[9] Perché è così importante la degna sepoltura?

La sepoltura è il significante fondamentale, originario. Il segno più antico della civiltà (insieme alle punte di lancia e al vaso), già a partire dal neolitico (c. 10.000 a.c.). Preservare la salma è riunire il parente al cuore della terra. È la presenza elementare che non si lascia all’estinzione caotica, alla mercé degli elementi.[10] Per Antigone il corpo di Polinice è la presenza elementare, il significante fondamentale che permette di dire: azzeriamo![11] Non importa quel che lui è stato e quel che ha fatto, il suo nudo cadavere è il significante zero per purificare la stirpe, per ri-generare il desiderio, per ricominciare ritrovando il luogo centrale da cui tutto inizia, o quanto meno per mettere fine alla de-generazione. Solamente la sepoltura di Polinice le permetterà di ristabilire un ordine superiore.[12] L’inumazione può essere vista come atto di cancellazione che consente la scrittura di una nuova vita. A volte incontriamo nella clinica un soggetto che si fa egli stesso cadavere, si pietrifica, si catatonizza, si “mortifica” in senso letterale. Pietrificazione significante come ritorno all’inanimato, all’assoluto, all’incondizionato di sé stesso. Il vaso e la sepoltura sono i due significanti fondamentali che troviamo all’origine degli insediamenti umani, ricordavo prima. Ogni tentativo di rifondazione di una stirpe, di una genìa o del soggetto stesso parte dal rifare il vuoto e dal rifare il corpo. Svuotamento e denudamento. Il vuoto permette di accogliere il nuovo, di dare forma. La nudità, la cadaverizzazione, permette la ri-animazione, dare una nuova anima. Kenosi è il termine greco che sta per far vuoto in sé, denudarsi. Ogni ascesi, ogni rinascita presuppone una kenosi, uno svuotarsi, un farsi deserto, nudo, cadavere.[13] Presuppone una separazione dall’ordine simbolico, ovvero dal senso, dalle rappresentazioni, dall’identità, dalla verità, dal bene/male. Quando, di fronte a Creonte, Antigone dà conto di ciò che ha fatto, sottolinea questa separazione dall’ordine simbolico, si pone fuori dalla dialettica, dice: “è così perché è così”, come a rivendicare l’azzeramento, l’individualità assoluta. Non ha bisogno di ragioni, di giustificazioni. Dice che non è stato Zeus a ordinarle di fare questo. Né la giustizia (Dike). Al di là del limite non ci sono leggi scritte, né dagli uomini né dagli dèi (v. 450 s.). Il corpo di Polinice è, per Antigone, “questa cosa” e basta, al di là delle sue qualità, della sua storia, delle sue determinazioni. È l’ecceità di cui parlerà il filosofo medioevale Duns Scoto.[14] È come se Antigone dicesse:

Questo atto non trova posto nell’ordine simbolico se non nelle parole che posso io, ora enunciare così: mio fratello è tutto quel che volete, criminale, traditore, despota, malvagio, pazzo, insomma è quello che è, ma qui si tratta di rendergli le onoranze funebri. Potete raccontarmi quello che vi pare, poco m’importa. Per me quest’ordine che voi osate intimarmi non conta niente, perché in ogni caso mio fratello è mio fratello. «Questo fratello è questo qualcosa di unico».[15]

Chiunque altro con cui potrei avere una relazione umana, mio marito, i miei figli, è rimpiazzabile, si tratta di relazioni, ma questo fratello che ha questa cosa in comune con me d’esser nato nello stesso utero e di esser legato allo stesso padre, un padre criminale, e alla stessa madre, una madre sciagurata, questo fratello è questo qualcosa di unico. Solo attraverso lui si può compiere questa purificazione. Solo con l’azzeramento delle differenze. È soltanto questo a motivare la mia opposizione ai vostri editti. L’unica cosa certa, fissa, immutabile in mezzo ai flussi di trasformazioni, di opinioni, di leggi possibili. Vicino alla soglia dell’Ate la storia, le immagini del mondo, le cose mirabili dell’uomo evaporano. Rimane un corpo e la sepoltura. Antigone incarna con la sua posizione questo a-fine-corsa, il limite radicale che, al di là di qualunque contenuto, del bene e del male, preserva il valore elementare di Polinice e con lui di ogni uomo. Questa purezza, questa separazione dell’essere da tutte le caratteristiche della vicenda storica che ha attraversato, è proprio questo il limite, l’ex nihilo, intorno a cui Antigone si mantiene.[16] È questo il taglio netto che la sepoltura del fratello consente.

La seconda morte

Creonte nega la possibilità di azzerare, di ripartire ex nihilo. Impedisce la purificazione dell’empia generazione. Ma Antigone non può fermarsi. Condannata a essere sepolta viva, mentre sta per varcare la soglia della sua tomba ha negli occhi «il desiderio puro reso visibile» (imeros), dice il coro al v. 796. Nel momento in cui accede volontariamente al luogo terribile e si consegna alla morte, sui suoi occhi fiammeggia il desiderio puro, reso visibile, palpabile. Questo imeros ci fa impazzire, ripete il coro, perdiamo la testa per questa bambina. La “bellezza” di Antigone nel momento in cui attraversa la soglia è accecante. Il fulgore di questo desiderio è il centro della tragedia. Il desiderio di raggiungere finalmente il luogo del proprio essere. Antigone incarna questo imeros che, guarda caso, il coro riferisce a Eros: «Eros, rendi folle chi ti porta nel cuore» (v. 790). Nel Fedro, Platone parla di imeros, del desiderio folle, della trance amorosa, della mania, riservata a coloro che hanno l’epopteia, l’iniziazione.[17]

Purificare il desiderio immondo recandosi nel luogo della rigenerazione, presuppone una seconda morte, oltre i limiti della vita umana. Le diverse civiltà hanno inventato modi per “recarsi” nell’oltre, morire temporaneamente e tornare: si tratta di una morte ritualizzata, iniziatica. I culti misterici: eleusini, dionisiaci, orfici sono caratterizzati proprio da una “seconda morte”, morte simbolica in cui erano recisi tutti i legami con il mondo, con il proprio passato, la propria stirpe. Morte da cui si rinasce a nuova vita, nuova identità, nuovo nome. La seconda morte è un al di là della rappresentazione, un al di là delle immagini del mondo, delle identificazioni, della storia e del destino consegnatoci dalle generazioni precedenti. “Le due morti”, “morire prima di morire”, “seconda morte”, sono infatti diverse formule che indicano la morte iniziatica senza la quale non può esistere una “seconda nascita”. L’azione iniziatica è destinata ad azzerare, a purificare, a liberare il singolo dalla vita storica, i sacri riti realizzano l’aspirazione a liberarsi dagli empi progenitori, permettono di ricrearsi, ri-generarsi. Antigone è sì una vergine ma non una vestale, non è una iniziata ai culti misterici, e il suo appello alla città e a Creonte non trova risposta. Non gli è data la possibilità di uno spazio ritualizzato di azzeramento. Non essendo una iniziata e non essendole stato concesso uno spazio sacro di rigenerazione, la seconda morte dovrà cercarla letteralmente oltrepassando il limite nel luogo in cui questo si trova ben demarcato: Ate. È il limite della vita umana che può essere oltrepassato per breve tempo, poi si cade nel nulla eterno. Lì si può sperimentare un azzeramento e una seconda nascita, anche se per breve tempo, ed è lì che vuole andare Antigone. Chi non è iniziato ai misteri, è costretto a trovare da sé la sua “seconda morte” per darsi la “seconda vita”. A volte non si può fare a meno di cercare questo luogo di azzeramento, quando non se ne può più della vita, delle sue leggi. È un desiderio oscuro che punta all’essenza del proprio fondamento, al di là dell’identità costituita: cancellare, ricominciare, rinascere, rifondare la causa del desiderio, ricreazione ex nihilo, ripartire dal vuoto, dal nulla, dal caos da cui ricreare il cosmos, sospendere la storia, la vita stessa.[18] Molti atti suicidi e autodistruttivi hanno a che fare con un desiderio di azzeramento e ri-creazione. Molte condotte adolescenziali violente e distruttive hanno a che fare con questo. Reclamano un sì che acconsenta a sospendere la storia e le ragioni del mondo.

Paradossalmente, la pulsione di morte si presenta come volontà di creazione a partire da niente, volontà di ricominciare. Antigone testimonia gli effetti di una trasmissione impossibile del desiderio, la lotta per rivendicare un luogo di azzeramento, l’ostinazione etica a non cedere sulla ricerca di quel luogo di rigenerazione del desiderio-causa, fino all’estrema soglia.

NOTE                                                                                                     

[1] Lacan Jacques, Il Seminario, Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 1994.

[2] Per Kant il piacere e l’affetto individuali sono “patologici” nel senso che rispondono all’interesse proprio che non coincide con il bene comune, per questo è necessario un imperativo categorico, incondizionato che dall’esterno si impone al soggetto e lo rende “degno”.

[3] Lacan, J., Il Seminario. Libro VII, p. 359.

[4] L’etica della psicoanalisi non è quella filosofica.

[5] Lacan J., op. cit., p. 314.

[6] Desiderio da purificare. Non a caso Lacan fa risuonare il termine catarsi, purificazione, con “catari”, la setta eretica medioevale che negava il corpo e la generazione.

[7] Carnefici e tiranni in fondo sono umani. E Creonte è umano, anche troppo umano. È Antigone a portare il segno dell’inumano, nella sua inflessibilità, nell’intransigenza, nella sua passione solitaria, nel suo desiderio di purezza assoluta. Infatti, solamente i martiri sono inumani: senza pietà e senza terrore.

[8] «Antigone porta fino al limite il compimento di ciò che si può chiamare il desiderio puro, il puro e semplice desiderio di morte come tale. Questo desiderio, lei lo incarna» (Lacan, p. 356).

[9] Nell’Edipo a Colono il conflitto tra Edipo e Creonte è causato dalla negazione di quest’ultimo a concedere al primo degna sepoltura a Tebe; Polinice si raccomanda di avere degna sepoltura; Edipo muore chiedendo a Teseo il segreto sulla sua tomba.

[10] Per i greci la sepoltura era di fondamentale importanza. Infatti, qualora un defunto non avesse avuto la possibilità di riceverla, era destinato a vagare senza fine in una zona sotterranea posta al di fuori dell’Ade vero e proprio.

[11] Il significante primo, primordiale, fondativo dell’umano, della società è il significante della sepoltura. È a questo che Antigone non può rinunciare, questo è l’ultimo significante rimastole (dopo la caduta degli altri significanti: figlia, sposa, madre, sorella) per accedere al luogo della ri-generazione. In questa reductio ad unum mostra il limite tra umano e inumano, il corridoio stretto dal quale è costretta a passare per preservare quell’unico segno che permette di azzerare tutte le colpe della sua stirpe, per poter rifondare l’origine (la causa) della stirpe nella purezza; solo così potrà rinascere seppur nella tomba.

[12] L’impossibilità di fondarsi sul desiderio empio della madre impone l’azzeramento degli oggetti mira e rifondare l’origine (la causa).

[13] Anche s. Francesco mostrerà questo significante fondamentale. Chiede di essere sepolto nudo sulla nuda terra.

[14] L’haecceitas (dal lat. “haec”, sottinteso “res”, ovvero letteralmente “questa cosa”), ossia della “questità”, l’essere individuata, una determinata cosa, come “questa e non altra” hic et nunc, qui ed ora, in un dato spazio-tempo. A prescindere da cosa ci sia stato prima. L’haecceitas è il limite che la ragione non può esplorare: la filosofia arriva a determinare l’individuazione come principio, ma non può indagare razionalmente la singolarità dell’ecceità.

[15] Lacan, op. cit., p. 352.

[16] Lacan, op. cit., p. 352.

[17] “Il desiderio visibile”, imeros, è proprio della mania, della follia di Dioniso. La purezza è un sogno folle che può essere vissuto solo nello spazio circoscritto del rito, dell’iniziazione.

[18] Necessità sentita soprattutto quando la mia causa non mi tocca o non può generare (anti-gone) desiderio.