L’arte della fuga. I live by long distance

Non credo che il mio modo di vivere assomigli a quello degli altri ma la cosa non mi dispiace affatto. [1]

Presso il Centro diurno Villa Lais, struttura del Dipartimento di Salute Mentale della Asl RomaC, è stata concepita, messa a punto e realizzata parte della manifestazione Glenn Gould. L’estetica dell’assenza, dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Parco della Musica, Roma, nov-dic 2012.

Perché Gould in un contesto psichiatrico?

Per due motivi: da una parte la sua poetica della distanza risuona con caratteristiche di quel luogo, dall’altra i processi che lì si elaborano offrono una possibile chiave di lettura della vita e dell’arte di Gould. Un luogo da cui gettare una nuova luce sulla sua figura e sulla sua estetica.

Il Centro Diurno è un luogo protetto e allo stesso tempo immerso nella vita della città. È un luogo in cui le persone che vi accedono possono regolare la pressione e le aspettative familiari e sociali. Luogo in cui il tempo non è scandito solamente dall’orologio e dagli adempimenti occupazionali, ma dal ritmo interno, dalla percezione e dalla condizione di ognuno; luogo in cui le relazioni non nascono dalle opportunità economiche o di potere e dove ogni particolarità o eccentricità è presa in conto e rispettata, così come l’inattività o l’isolamento.

La ricerca della distanza, la sottrazione, il parziale isolamento di Gould, sono temi che hanno una forte risonanza nella vita e nella condizione delle persone che frequentano il Centro; persone che per scelta o per destino vivono “a debita distanza” dal clamore, dalla competizione, dalla pressione insopportabile dell’altro.

Questi sono temi costanti della vita e dell’arte di Gould. Non solo la sottrazione dal pubblico e dai concerti, ma la sua casa sul lago, la passione per i lunghi viaggi solitari in macchina lungo le strade della provincia desolata, la ricerca di paesaggi artici, di terre deserte, tutto parla di questa aspirazione.

Esemplari in tal senso i suoi documentari radiofonici realizzati per la CBC: The Idea of North, The Latecomers, The quiet in the land, dove il tema è proprio la condizione di isolamento di alcune comunità che vivono nelle regioni fredde del Nord del Canada fino all’Isola di Terranova. Per Gould il Nord è una metafora, un’idea astratta, un luogo dove poter «smettere di preoccuparsi dell’opinione altrui», come egli stesso sottolinea.[2] Tutto sembra orientato a questa sottrazione: «in un modo o nell’altro, tutti i soggetti che ho scelto, anche quelli musicali, hanno a che fare con l’isolamento».[3] Si tratta di una scelta, di una aspirazione e non di una rinuncia malinconica. Si era anche riproposto di fare «una commedia su un uomo isolato».[4] Una commedia, appunto, non una tragedia.

La sua è una passione per la solitudine che non esclude il desiderio di comunicare e di essere con l’altro. Sebbene avesse scelto di vivere separato dal mondo, al riparo dallo sguardo, dal contatto e dal giudizio degli altri, Gould non cessò mai di comunicare. Usò i media tecnologici come argine e presa di distanza dal contatto diretto, ma anche come via di accesso e comunicazione con l’altro. In questo senso la tecnologia ha per Gould una funzione protettrice, è «l’agente distanziatore più efficace che l’uomo conosca, […] schermo protettivo e confortante».[5] Permette di essere non-presenti e all’occorrenza anonimi. Consente di ricreare un ambiente di lavoro «meravigliosamente ermetico».[6] Mette al riparo dalla paura e dall’ansia della prestazione, ha la funzione di un «tranquillante».[7]

Consente di passare dal rapporto impossibile con l’altro, all’invenzione di strategie per una relazione protetta, possibile.

Scelta estremamente risonante con i nostri tempi, in cui la moltiplicazione dei mezzi di comunicazione va di pari passo con l’esigenza di prendere distanza dalla onnipresenza dell’altro. Fino al punto di far nascere una nostalgia del silenzio, della solitudine, della calma, di rapporti sicuri, protetti. Di piccole comunità. Insomma, quanto più si impone la globalizzazione, la velocità e l’interconnessione, tanto più emerge un desiderio di locale, di lentezza, di solitudine. Tanta più luce abbagliante, sole, spazi pieni, tanto più desiderio di luce soffusa senza forti contrasti, di spazi estesi, vuoti… per riprendere un’immagine cara al musicista di Toronto.[8]

Gould non può sopportare la vicinanza, il fiato sul collo, il contatto corporeo, lo sguardo, la presenza e il giudizio dell’Altro. Arriva a dichiarare di detestare il pubblico. Deve erigere una difesa, un filtro, uno schermo.

E allo stesso tempo nessuno più verboso di lui, continuamente impegnato nel creare, sperimentare, proporre programmi radio e televisivi, testi scritti, registrazioni, incisioni. Era capace di attaccarsi per ore al telefono con amici ascoltatori pazienti. Il telefono, la radio, la televisione, la scrittura, la sala di registrazione come mezzi di continua connessione a distanza. Regolare la distanza tra sé e l’Altro è la condizione che permette l’apertura, lo scambio.

Non solo nei dispositivi scelti per comunicare ma anche nelle modalità possiamo riconoscere questa doppia funzione.

Ad esempio l’ironia, usata come strategia di difesa ma anche come modo per prendere parola e non chiudersi. Gould era un uomo bizzarro ma non introverso. La sua surreale vena ironica la si può cogliere nei suoi scritti e in molte delle trasmissioni televisive in cui interpretava una serie di personaggi strampalati e grotteschi: il direttore d’orchestra, il critico musicale tedesco, il compositore di musica contemporanea, il tassinaro newyorchese.

Anche in questi casi si tratta di una strategia della distanza. Infatti, mentre nell’umorismo l’altro è vicino, presente, si ride con lui, l’ironia non ha bisogno della comprensione e del riso dell’altro, anzi lo si prende in giro, è un modo per colpirlo, sminuirlo, ridicolizzarlo e quindi tenerlo a bada. Forse in questo senso vanno lette alcune operazioni gouldiane in cui si applica sistematicamente a suonare autori o opere che “disprezza” o che quantomeno vuole “ridurre” al proprio linguaggio, opere e autori con cui non dialoga. Ad esempio suona tutto Mozart, ma a modo suo, per metterne in luce le “banalità”. Definisce la sua trascrizione della Quinta di Beethoven uno “scherzo”, dichiara di aver registrato la Sonata op. 58 di Chopin solo per divertirsi e per “irritare” i suoi amici.[9]

A questa continua strategia di sottrazione dall’autorità, dallo sguardo e dal giudizio dell’altro possiamo ricondurre anche la sua predilezione per la musica polifonica e contrappuntistica e il suo rifiuto di ogni principio gerarchico. Rifugge le opposizioni, i conflitti, gli antagonismi, ama gli sviluppi orizzontali e indipendenti, le sovrapposizioni, le qualità parallele, il movimento continuo senza note fondamentali. Parlando delle Variazioni Goldberg si riferisce all’aria come a un tema autonomo che evita qualsiasi atteggiamento genitoriale verso la sua progenie, le variazioni. Dal suo punto di vista, il tema-padre non lascia nulla in eredità alla sua discendenza e viene completamente dimenticato nel corso delle trenta variazioni, ogni singola variazione appare assolutamente indipendente e singolare.[10] È indicativo che la polifonia è trattata da Gould in maniera particolare: omogeneizza le diverse voci, le mette sullo stesso piano, quasi neutralizzando l’idea stessa della polifonia. Nella musica come nella vita sembra vigere l’assenza di qualsiasi principio di autorità e di facoltà generativa. Ne consegue una assoluta libertà interpretativa che trova in Bach la massima realizzazione, data l’assenza di indicazioni dinamiche e di tempo del compositore.

Su questo modello del contrappunto si comprende il suo ideale dei rapporti con il prossimo: privo di qualsiasi conflittualità; la sua concezione della lettura e dell’esecuzione: priva di vincoli storici-cronologici; la sua idea del ruolo creativo di compositore, interprete e ascoltatore: privo di distinzione. Anche qui una logica orizzontale, non conflittuale.

Cosa è accaduto nel Centro Diurno in sei mesi di lavoro a partire dalla figura, dai testi e dalla musica di Gould?

La vicenda e la passione dell’artista sono divenute pian piano metafora della condizione di ritiro e protezione che spesso le persone che frequentano il Centro cercano. Hanno contribuito alla ridefinizione di un luogo. Non solo luogo di cura ma luogo di elaborazione e presa di posizione rispetto al modo dominante di condurre i rapporti economici, sociali ed affettivi. Una metafora che incoraggia a riconoscere questo parziale isolamento, ad accoglierlo per cercare un nuovo senso, a praticarlo per camminare insieme su un nuovo terreno, ma nel rispetto di quel particolare e a volte eccentrico modo di essere con l’altro.

Questa difficoltà di essere nel mondo, questa “poetica della distanza” per il fatto stesso di essere riconosciuta, nominata e addirittura incarnata da un artista-genio, trova un paradossale modo di essere condivisa.

Cosa abbiamo appreso esponendoci alle illuminazioni e alle contraddizioni di Glenn Gould?

L’inferno sono gli altri. Tocca imparare l’arte della sottrazione.

Ma forse questi altri non sono che degli evocatori di un disagio più intimo, l’inferno è in noi. Tocca imparare l’arte della distrazione.

Ci si può isolare dagli altri ma si rimane in compagnia di se stessi, dei propri pensieri, dei propri dolori. Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia, diceva Paul Valéry.

«Ho bisogno di trovare un modo per prendere le distanze da me stesso, pur rimanendo totalmente coinvolto in ciò che faccio», confessa Gould.[11]

A debita distanza dagli altri, ma anche da se stesso.

Essere davvero soli può essere troppo difficile e troppo doloroso.

Ecco che gli altri ritornano in scena ma non come ostacoli, persecutori, sadici, nemici, disturbatori, gli altri ora sono essenziali per temperare questo inferno.

La poetica della distanza prevede la presenza dell’altro, è anche poetica della connessione. Come Gould: isolato ma non solo.

Non si tratta allora di arte della fuga ma dell’arte di trovare la giusta distanza, di inventare un modo di incontrare l’altro e il mondo, un modo che non sia opprimente per se stessi e per gli altri.

Il risultato del lavoro è stato non uno spettacolo su Gould, piuttosto delle rielaborazioni che ne importano la cifra inventiva e i temi esistenziali.

Le singole performance sono state preparate come moduli autonomi da poter montare in sequenze diverse. Azioni corali, brevi monologhi, installazioni si succedono e creano un montaggio narrativo e musicale.

In un angolo con una parete di vetro, un uomo lentamente costruisce davanti a sé un muro che lo separerà dagli altri, dai visitatori. Man mano che vi scompare dietro lascia nel muro delle fessure, delle feritoie dalle quali lancia sui visitatori dei messaggi scritti.

C’è chi smarrito cerca la sua nicchia, parla con gli astanti e li esorta alla temperanza, al piano piano.

C’è chi ironicamente declama un inno alla competizione e all’ambizione sfrenata. Altri tentano di incontrarsi ma su una scala delle distanze che non permette il contatto. Coppie segrete si cercano. Ma la danza non ha luogo. L’Altro rimane oscuro, fa paura perché potrebbe sparire… e lasciar soli. E qualcuno si fa vuoto. Appeso a una gruccia: docile, devitalizzato, portato in giro in un museo ad ammirare opere.

Alcuni corrono, lungo le scale che si incrociano come le linee di una fuga di Bach, verso un Nord di pace e solitudine. Ognuno con il suo bagaglio, la sua storia, i suoi impedimenti, le sue soluzioni. È una fuga dagli altri, dalla socialità, dalla competizione, dall’esibizione. Ognuno trova una sua nicchia dove rifugiarsi.

Una donna al telaio, il suo pianoforte, parla del rifiuto della parola: nella vostra lingua non voglio più parlare, solo tessere. Un uomo si tiene in disparte, straniero a se stesso e agli altri, relegato nel ceppo del corpo. Un altro rintanato in casa, al gelo in attesa di partire verso il suo Nord.

Una donna che cerca di fabbricarsi una singolare solitudine che gli permetta di camminare verso la sua estasi.

MICHELE CAVALLO

Pubblicato in:  Catalogo della Mostra multimediale Glenn Gould. L’estetica dell’assenza. Auditorium Parco della Musica, nov-dic 2012 Roma, edito da Accademia Nazionale di Santa Cecilia.

 

NOTE

[1] Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, p. 98

[2] Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, p. 107.

[3] Cott Jonathan, Conversazione con Glenn Gould, p. 65.

[4] Jonathan Cott, Conversazione con Glenn Gould, Ubulibri, Milano, 1989, p. 65.

[5] Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, EDT, Torino, 1989, p. 104.

[6] Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, p. 141.

[7] Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, p. 144.

[8] Cott Jonathan, Conversazione con Glenn Gould, p. 69.

[9] Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, p. 171.

[10] Glenn Gould, L’ala del turbine intelligente, Adelphi, Milano, 1993, p. 61.

[11] Glenn Gould, No, non sono un eccentrico, p. 111.

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