L’atto disumano

Un uomo tirava a sorte tutte le sue decisioni.

Non gli capitò maggior male che a quelli che riflettono.[1]

 

 Figure e luoghi della follia     seminario di Michele Cavallo  al Dipartimento di Arti e Scienze dello Spettacolo dellUniversità Sapienza di Roma, a.a.  2007-2008

L’ora di Shakespeare

Ora l’inverno del nostro malcontento è trasformato

in splendida estate da questo sole di York;

e tutte le nubi che incombevano sulla nostra casa

sono sepolte nel profondo seno dell’oceano.

 

Ora!

Non “c’era una volta…” in cui si narra qualcosa che è accaduto.

Con questo “ora” il lettore è convocato e installato immediatamente nel tempo dell’azione presente, complice di ciò che sta accadendo, messo al corrente in tempo reale dei pensieri e delle intenzioni di Riccardo duca di Glaucester. Suo testimone partecipe, non semplice destinatario di un racconto.

Ora le nostre fronti sono cinte di ghirlande vittoriose;

le nostre armi ammaccate sono appese come trofei;

i nostri bruschi allarmi si mutano in gaie adunate,

le nostre terribili marce in amene danze.

La Guerra dal viso arcigno ha rasserenato la corrugata fronte,

ed ora, invece di montare bardati destrieri per atterrire

il cuore  dei tremendi nemici, sgambetta agilmente

nella camera di una donna al suono lascivo d’un liuto.

Ma io, che non ho grazia fisica per simili spassi,

né per corteggiare un amoroso specchio,

io che sono uscito da un rozzo stampo,

privo di simmetria e di fascino amoroso

per pavoneggiarmi mollemente dinanzi a una ancheggiante ninfetta;

io, che sono privo di questa bella simmetria,

frodato nel corpo dalla natura simulatrice, deforme, incompiuto,

spinto prima del tempo, in questo mondo che respira,

formato soltanto a metà, e così storpio e privo d’ogni sembianza umana

che i cani mi abbaiano contro quand’io passo zoppicando vicino a loro;

ebbene, io, in questo fiacco e zufolante tempo di pace,

non trovo altro diletto per passare il tempo se non di guardare

la mia ombra al sole e meditare sulla mia deformità.

E così, non potendo essere un amante per trascorrere

questi bei giorni in piacevoli colloqui,

sono deciso a mostrarmi malvagio e a colpire con il mio odio,

i frivoli piaceri di questo nostro tempo.

Ho ordito intrighi, pericolose congetture, con profezie vaneggianti, calunnie e sogni,

per spingere mio fratello Clarence e il re in odio mortale l’uno contro l’altro:

e se il re Edoardo è tanto leale e giusto quanto io sono astuto, falso e traditore…[2]

Siamo sui blocchi di partenza prima di essere lanciati in una folle corsa di atti criminosi che si susseguono, incalzano. Corsa che non si arresterà se non con la morte. Riccardo III è il paradigma di una traiettoria, una freccia che scoccata procede inarrestabile fino al suo bersaglio. La determinazione, la forza, la velocità, la linearità dell’azione di Riccardo sono come quella di una freccia che scoccata da un arco, punta dritto al bersaglio. Come la freccia, anche Riccardo ha una forza, un arco che si tende, una causa del suo moto, una velocità, una traiettoria decisa, un bersaglio.

Il tempo che inizia alla fine del primo monologo, fa scoccare l’ora della tragedia e il voltare la pagina del libro dà inizio ad una corsa che prende sempre più piede, incalzante, continua, non una pausa, non un rallentamento e tutto ciò che si lascerà dietro sarà polvere, polvere e sangue, una corsa irrefrenabile fino ad approdare all’unico momento di vacillamento; e dov’è che l’uomo nella sua portata di umanità cade sopraffatto dalle colpe e dalla paura se non nella notte? E sarà proprio la notte, la notte dell’ultima battaglia che sospendendo l’azione farà emergere il sogno e la sua portata d’angoscia.

Ma il tempo di Riccardo non soltanto non ammette pause e rallentamenti per il protagonista, non soltanto lui è lanciato nella folle corsa, ma con lui anche il lettore. È così veloce che non abbiamo neanche il tempo di prendere le distanze da lui, finendo per ritrovarci identificati con qualcuno che la pensa e che agisce in maniera molto differente da noi, almeno nella misura in cui seguiamo la morale comune e i suoi interdetti. L’identificazione, allora, non è data dalla somiglianza: possiamo identificarci con qualcuno di molto diverso da noi, magari anche riprovevole, lontanissimo dal nostro gusto e dai nostri principi morali, senza capire né come né perché questo sia possibile.[3] Ecco allora l’interrogativo che Riccardo fa balenare: “come è possibile identificarsi in lui”? Un interrogativo che non possiamo sciogliere velocemente, cedendo alla scorciatoia delle facili interpretazioni psicologiche.

A partire da qui possiamo toccare con mano come nella fruizione e nell’interpretazione dell’opera i processi psicologici che richiamano la specularità, l’identificazione, il riconoscimento, la risonanza, l’empatia…  non sono in grado di render conto dell’effetto tragico. Effetto che deve essere misurato lontano da una fenomenologia esperienziale, quotidiana, psicologica, proiettiva. Non solo i personaggi tragici non si presentano con una chiara psicologia, ma la nostra fruizione non si misura secondo pure dimensioni psicologiche di identità, somiglianza, l’opera stessa non può essere ridotta a una mera spiegazione psicologica.

Di Riccardo III, di Macbeth «come della maggiori tragedie di Shakespeare, va anzitutto detto che è necesario non ingabbiare – e così snaturare – l’opera nello schema di una definizione psicologica».[4] Non solo non è opportuno farlo, ma occorre innanzitutto riconoscere che la dimensione psicologica è ciò che Shakespeare sottrae alla tragedia. Poiché proiettarvi le categorie della psicologia quotidiana sarebbe snaturarla, introdurre qualcosa che l’autore volutamente non ci ha dato nella costruzione drammaturgica. Possiamo chiederci allora perché non ce lo dà e come fa a sottrarlo. Probabilmente, il perché ha a che fare con la cifra stessa del tragico, che non può essere ridotta alla comprensione e alla dialettica dei ragionamenti e dei sentimenti ordinari. Il tragico porta in campo sempre un’eccedenza, un travalicamento della volontà e della comprensione umana. È nello scacco dell’umano che si innesta l’effetto tragico. Ricondurre i motivi, le azioni, i sentimenti alla comprensione psicologica vuol dire automaticamente essere fuori dal tragico. Per quanto riguarda il come sottrae la dimensione psicologica, probabilmente potremmo fare diverse ipotesi, ma sicuramente una delle strategie drammaturgiche estremamente efficaci è proprio la velocità, la concentrazione del tempo narrativo. È così per la vicenda del Riccardo III, è così per la vicenda del Macbeth ed è così per l’ultimo atto dell’Amleto. Sì, l’ultimo atto, poiché i primi quattro atti sono presi in un tempo sospeso, lento, paludoso, molle. Nel V Atto accade tutto ciò che prima era dilatato come da uno stato di torpore. Il precipitarsi delle azioni in questo ultimo atto è sorprendente: in pochi minuti si consuma il duello con Laerte e la sua uccisione, la morte della madre, la morte di Claudio e la morte di Amleto stesso. Qui la velocità dà la cifra tragica alla vicenda. Nei restanti quattro atti Amleto non sarebbe, quindi, un personaggio tragico? Lo è, ma grazie a un’altra strategia drammaturgica: la psicologia ordinaria è sottratta in  Amleto attraverso una opacità, un enigma che fa sì che noi lettori, e lui stesso, non abbiamo le coordinate (psicologiche) per venire a capo dell’impasse della sua azione. Deve compiere la giusta vendetta, ma non lo fa;  non sappiamo e non sa egli stesso perché. La causa non lo tocca veramente e, anzi, lo installa in un tempo molle, “invertebrato”. Quindi la cifra tragica e de-psicologizzata di Amleto nel primo tempo (sospeso) è data dall’enigma che si inscrive sul suo essere, nel secondo tempo (veloce) è data proprio dal precipitarsi nell’azione al di là delle valutazioni razionali, emozionali, morali.

Se riducessimo i personaggi alla loro “psicologia”, Macbeth diventerebbe la tragedia dell’ambizione, della paura, della colpa; Riccardo III la tragedia della crudeltà, dell’inganno; Amleto la tragedia del dubbio, della malinconia. Mentre, vediamo bene che ogni attribuzione psicologica risulta riduttiva. Gli stessi personaggi non possono essere compresi a partire dalla loro psicologia, se non al prezzo di un drastico impoverimento. Il loro enigma non può essere spiegato e risolto attraverso le categorie delle scienze psicologiche.

Tuttavia, considerare l’enigma come ciò che rende irriducibile il testo all’interpretazione, non basta, rischia di essere troppo generico. Occorre precisarlo, occorre precisare innanzitutto di quale enigma si tratta rispetto alle tragedie shakespeariane, o almeno in queste tre che abbiamo indicato e che prenderemo in considerazione. È quel particolare enigma che sorge dal rapporto tra il soggetto e la propria azione, o meglio dalla faglia che separa il soggetto dal proprio atto. Può essere il gesto interrotto e impossibile di Amleto o la rapida complicità dei coniugi Macbeth che arrivano a compiere qualcosa da cui a loro volta verranno radicalmente trasformati. Forse qui abbiamo una prima indicazione su cosa possiamo intendere con “atto”: e cioè non soltanto un’azione che si compie come risultato di un ragionamento, di un calcolo, di una volontà, ma un’azione che ci mostra l’impossibilità di padroneggiarla e di poterne calcolare fino in fondo le conseguenze. L’atto ci mostra tutto lo scarto con le intenzioni dichiarate, mostrando una certa imprevedibilità, si dà come qualcosa che supera ogni calcolo, ogni motivazione, e segna un enigma sui nostri effettivi intenti.

È quindi dal rapporto con l’atto che emerge l’enigma che ricade sul soggetto stesso. In Amleto questo può essere colto chiaramente. Se Amleto è l’eroe del dubbio, l’eroe che apre all’interrogazione sull’essere, su ciò che siamo, non dobbiamo dimenticare che questa interrogazione si origina proprio in conseguenza della sua incapacità a commettere l’atto di vendetta. Quante volte nella nostra esperienza proprio l’incapacità di fare qualcosa, di portarla a compimento fa sorgere il dubbio su noi stessi, sulle nostre capacità, sul nostro valore. Il sorgere del dubbio sul nostro valore si manifesta a volte come “calo dell’autostima”. Questo è ancora più evidente quando a volte è proprio un piccolo fallimento, un piccolo inciampo a rimettere in discussione l’intera idea del nostro essere e del nostro valore, come a rivelarne la fragilità. Altre volte non è un singolo fallimento, ma la sua ripetizione. Il fatto che si continua a fallire, si continua a non riuscire a fare proprio quel compito lì. Vediamo che è sempre qualcosa che ha a che fare con l’agire. Altre volte ancora è quando riusciamo a fare qualcosa di cui non ci ritenevamo capaci e invece proprio all’improvviso troviamo il modo e l’energia per farlo. Compiamo qualcosa che non sapevamo di poter fare e questo apre un interrogativo, fa risaltare uno scarto sulla percezione e conoscenza di noi stessi. Altre volte ancora può essere l’atto rispetto al quale dopo ci chiediamo “ma cosa ho fatto”, l’atto di cui non ci attendevamo delle conseguenze simili.

In tutti questi casi emerge tutta la differenza tra intenzione e desiderio inconscio. Diversamente dall’intenzione che è un calcolo che precede l’azione, il desiderio inconscio, infatti, si rivela, o meglio traspare solo a partire dalle conseguenze dell’atto. Cioè si arriva a intravedere un altro volere a cui risponde l’atto ma solo dopo aver constatato le conseguenze che l’atto ha prodotto. La vera intenzione dell’atto si rivela solo a partire dalle sue conseguenze. Ecco che troviamo nell’atto una irriducibilità all’interpretazione psicologica, ma questa volta non soltanto a livello della tragedia, ma dell’esperienza quotidiana stessa. Nella nostra stessa esperienza qualcosa eccede le dimensioni psicologiche della coscienza, del pensiero, dell’intenzione, del sentire. Che cosa sono le intenzioni o le motivazioni se non quello che il soggetto può pensare, programmare, dire? E cosa è il desiderio inconscio se non ciò che il soggetto non può pensare, ciò che, pur appartenendogli, gli è sconosciuto, ciò che, pur essendo il movente e la causa, si rivela solo a posteriori, nelle conseguenze?

 

La causa, la deformità, l’eccezione 

Abbiamo detto che Riccardo è una freccia. Una freccia che ha il suo arco, la sua causa, il motivo che ne determina il moto. Riccardo, lo abbiamo visto, si presenta come un uomo deforme, con un gobba e un braccio avvizzito. Ora che la guerra è finita e la sua funzione di soldato viene meno, solo ora, in un tempo di pace, la  deformità di Riccardo viene in primo piano rivelando la sua inadeguatezza, ora più che mai la sua condizione si mostra come handicap.

Ma io, che non ho grazia fisica per simili spassi, né per corteggiare un amoroso specchio, io che sono uscito da un rozzo stampo, pri

vo di simmetria e di fascino amoroso per pavoneggiarmi mollemente davanti a una ancheggiante ninfetta; io che sono privo di questa bella simmetria, frodato nel corpo dalla natura simulatrice, deforme, imperfetto, spinto prima del tempo, in questo mondo che respira, formato soltanto a metà e così storpio e

 

privo d’ogni sembianza umana che i cani mi abbaiano contro.[5]

In questo tempo di pace è costretto a guardare e a valutare il suo corpo, a vederlo come non-finito, imperfetto, non adatto. Lui non è come gli altri, è portatore di una diversità irriducibile. Ora deve subire gli effetti di esclusione, di rinuncia che la natura gli ha imposto. Scarto

 

dell’umanità, è costretto a confrontarsi e a farsi carico di questa esclusione. Nella sua alterità, nella sua differenza c’è in gioco un reale inaggirabile, inassorbibile. Un reale che non può essere integrato attraverso l’accoglienza, le “buone pratiche”, i buoni sentimenti. Un reale che resiste a ogni tentativo di simbolizzazione e che solo nel tempo della guerra e dell’odio trova un posto. Ma ora, in un tempo in cui l’odio si è placato e la guerra è finita, che posto avrà questo reale della sua diversità? La sua immagine deforme è in realtà un “in più”, un troppo di cui non si sa che farne, ora. Questo tempo di pace fa emergere l’in più che pone Riccardo nella posizione di diverso, di scarto. L’irruzione di questo “troppo” fa sì che ogni logica di tolleranza e integrazione incontri un limite.

In questo senso Riccardo ci aiuta a capire e a mettere in evidenza l’esistenza di una “differenza assoluta”, a dispetto di ogni logica di tolleranza e apologia della diversità. “Assoluta” in quanto è una differenza che non riusciamo a riconoscere e a ricomporre.

 

La difficoltà a rapportarsi con tale differenza non sta nel capire e riconoscere quanto all’altro manchi per essere come me, ma nell’accetazione che l’altro, in quanto diverso, porta con sé e presentifica qualcosa di troppo che supera ogni possibilità di riconoscimento. Quando questa porzione di differenza assoluta, irriducibile, incomprensibile, che non permette rispecchiamento e riconoscimento viene negata, rimossa, edulcorata, rischia di tornare indietro e investirci come un boomerang sotto forma di odio e violenza.

Possiamo allora elevare Riccardo a paradigma di diversità, qualsiasi essa sia (fisica, mentale, etnico-culturale), paradigma di quella diversità in cui è in gioco una differenza che non può essere assorbita completamente in nessuna forma o discorso. Non è la differenza in quanto pluralità, manifestazione che arricchisce e completa le espressioni dell’umano, che è facilmente accettata e anzi valorizzata; non è neppure differenza di grado, di un meno o di un più, questo tipo di differenza è sempre nella continuità, calcolabile, misurabile, recuperabile, compensabile, risarcibile. È invece una differenza che annuncia qualcosa di disumano, è una percezione del non-finito e come tale insopportabile. La “buona forma”, la “costanza percettiva”, la “riconoscibilità”, sono principi gestaltici della costituzione dell’unità,

 

dell’identità. Ma Riccardo è fuori forma, non è tra le forme possibili che l’altro può guardare, riconoscere, calcolare, contemplare. Egli testimonia di quanto rimane disunito e sospetto nella diversità, mostra il limite di ogni discorso sulla armonizzazione del dualismo normalità/diversità. Riccardo rivela l’illusione di relativizzare tanto la normalità che la diversità, nel miraggio di un incontro armonico e democratico. Non c’è dialogo, accettazione, atto d’amore che possa azzerare la sua differenza. Né la conquista del potere, del trono, né il perdono, l’amore e la comprensione di Lady Anna serviranno a risarcirlo e a integrarlo. Non troverà mai il suo posto nel mondo degli altri, neppure da re.

Possiamo sentire un’eco di questa irriducibilità nello stupore che abbiamo provato nel sapere che gli attentatori musulmani di Londra del 2006, erano cittadini brittannici “ben integrati”. Con ciò non vogliamo dire che sia inutile perseguire politiche di integrazione, ma che nel perseguirle occorre prendere in carico anche il loro limite in quanto nella differenza c’è sempre un reale in gioco che non può essere armonizzato, negato o edulcorato.

Nel monologo Riccardo fa i conti con questo reale, con la sua immagine non-finita. A partire da questa presa d’atto, Riccardo indica la propria intima risposta: «visto, perciò, che non posso essere un amante e trascorrere questi bei giorni in piacevoli colloqui, sono deciso a mostrarmi malvagio e a colpire con il mio odio gli oziosi piaceri di questi tempi».

La sua risposta non è l’unica possibile. Per una persona che si trova nella sua condizione si possono dare altre risposte possibili. Una di queste è compatirsi e beneficiare della comprensione, della compassione, dell’assistenza, dell’amore degli altri. Ogni Quasimodo potrà sperare di trovare la sua Esmeralda. Altra possibilità è di identificarsi completamente in questo essere rifiuto, scarto,  lasciare che l’ombra del suo corpo lo avvolga completamente e lo trascini fuori dalla scena, nella malinconia. Così come evocava Freud in Lutto e melanconia: «l’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io».[6] Un lasciarsi avvolgere dall’ombra che può trovare nel suicidio il suo epilogo.

Riccardo non sceglie né l’una né l’altra, non si appella agli altri per essere aiutato, compatito, né si lascia inghiottire dal suo corpo-scarto, decide di dialogare con la sua ombra, prendere distanza, non coincidere col suo essere rifiuto. Riccardo rimane in scena a incarnare l’unica altra posizione possibile: l’eccezione.[7] In questi termini è stata indicata da Freud stesso, nel momento in cui interpreta il monologo di Riccardo: «La natura mi ha fatto un grande torto nel momento in cui mi ha negato la bellezza esteriore capace di attirare l’animo umano. La vita per questo mi deve un risarcimento, che io farò in modo di ottenere. Ho perciò diritto di essere una eccezione e di ignorare gli scrupoli da cui gli altri individui si lasciano ostacolare. Posso arrecare torti perché io stesso ne ho ricevuti».[8]

In altre parole, Riccardo rovescia l’ingiustizia in una rivendicazione, in un diritto a essere risarcito di quello di cui è stato privato: «frodato da una natura simulatrice». Qui il risarcimento non è quantificabile, ponderabile, non può avere un limite temporale e/o psicologico: deve essere un risarcimento in-finito. La traiettoria del diritto al risarcimento è lanciata… nell’incommensurabile.

Come ha fatto notare lo psicoanalista Jacques A. Miller:

 

Freud pone all’origine della posizione soggettiva dell’eccezione la convinzione di un’ingiustizia. E in fondo è per il semplice fatto che lui stesso introduca il termine di ingiustizia che mi è sembrato di non forzare le cose parlando di diritto imprescrittibile rispetto al godimento. Questa convinzione di un’ingiustizia si trasformerebbe in rivendicazione di un privilegio o di una riparazione. […] La natura mi ha rifiutato la bellezza, allora la vita mi deve risarcire, ho dunque il diritto di essere un’eccezione, di oltrepassare tutti i limiti che arrestano gli altri. Si vede bene che la nozione di eccezione si presta ad essere universalizzata […]. C’è in ciascuno una eco della posizione di Riccardo.[9]

Eco che Freud non aveva mancato di sottolineare, facendo di Riccardo uno «smisurato ingrandimento di qualcosa che troviamo anche in noi stessi. […] Tutti pretendiamo una riparazione che ci indennizzi dalle antiche mortificazioni che ha subìto il nostro narcisismo, il nostro amore per noi stessi».[10]

In questa intima “pretesa di risarcimento” sembra aver trovato posto e alimento la logica capitalistica del mercato dei nostri tempi; la produzione di oggetti di consumo si offrono come ricompense, indennizzi a insoddisfazioni e mortificazioni dovute a ingiustizie (sociali, biologiche, …). La proliferazione di tali oggetti è tanto più ricca e variegata quanto più questi mancano il “definitivo risarcimento”, che appare appunto impossibile e infinito. Nella nostra epoca ipermoderna tale logica si proietta in una accelerazione mai incontrata prima nella storia. Gadget, oggetti, feticci, simulacri materiali e/o simbolici che si offrono al soggetto come risarcimento di una mancata libertà a godere di tutto. Il fallimento di tale risarcimento, o meglio della sua natura fantasmatica, illusoria, è data dal vettore inarrestabile, insaziabile che chiamiamo “consumismo”. Nessun oggetto arriva mai ad essere quello adatto per soddisfarci una volta per tutte. Forse possiamo qui ritrovare una cifra del nostro tempo: il consumo come oggetto del soddisfacimento al di là dei diversi oggetti di consumo. In tal senso fa eco la posizione di eccezione di Riccardo, nella impossibilità di trovare un “risarcimento definitivo”; ma diversamente da Riccardo non tutti ci assumiamo la “responsabilità” di essere eccezioni e di perseguire con i nostri atti tale risarcimento: cerchiamo di evitare di fare cose riprovevoli, di oltrepassare i limiti, cerchiamo di rimanere nella legge, nella morale, nel riconoscimento degli altri. Ci accontentiamo di poter consumare feticci, oggetti che vengono a ricompensarci, sia pur fantasmaticamente, della libertà di godere in maniera incondizionata.[11]

La folle corsa di Riccardo

La velocità delle decisioni di Riccardo ci sorprende, ci spiazza, non c’è sviluppo di emozioni, né alcuna esitazione nelle sue scelte, già da subito decide di far assassinare suo fratello Clarence che invece confida in lui. La contrazione del tempo e la rapida successione degli eventi sono l’artificio drammaturgico che Shakespeare utilizza per far risaltare la caretteristica dis-umana, estraniante di Riccardo, la sua risolutezza, la sua certezza. La certezza di Riccardo è il rovescio del dubbio amletico. La traiettoria rapida e decisa di Riccardo è il rovescio del differimento dell’azione che vede Amleto, per ben quattro atti, intrattenersi con la questione della verità e in particolare con le questioni che riguardano “l’essere”. Come abbiamo accennato, solo nel V atto la decisione si riversa nell’azione e dà anche ad Amleto il tempo di Riccardo. L’ora di Riccardo è unico tempo, invenzione drammaturgica con cui Shakespeare fa saltare il tempo del pensiero, della riflessione, della comprensione, cioè del dubbio.

In questo senso, la forte presa del personaggio di Riccardo sullo spettatore è da mettere in rapporto con un duplice effetto: da una parte ci riconosciamo, ci identifichiamo nel suo desiderio incondizionato, nella risolutezza assoluta e oltreumana che ne fa un eroe (sia pur negativo), nella pretesa di rivendicazione e quindi nel suo essere un’eccezione (in fondo ognuno di noi si sente un’eccezione, se non altro in quanto unico! Tutti confidiamo in quel “diritto ai 15′ di celebrità” che Andy Warhol preconizzava nella nostra società dello spettacolo); dall’altra parte c’è un effetto estraniante, inquietante, che ci impedisce di riconoscerci in lui proprio perché passa all’atto, realizza il suo desiderio, al di là di ogni limite.

Tutto ciò che spinge Riccardo alle sue azioni, nella nostra condizione di “normalità”  rimane confinato nella fantasia e ci fa diventare spettatori dei nostri desideri inconsci. Riccardo è l’eroe che per tutti noi realizza l’eccezione, realizza la sua rivendicazione al godimento, non si accontenta di fantasticarla. È colui che liberandosi dagli ormeggi del pensiero, libera la sua azione dai limiti imposti dall’Altro, sgancia l’azione dalla morale, così come libera la parola dai suoi vincoli con la verità.

È proprio in questo scarto tra “la normalità” e “l’eccezione realizzata” che prolifera la “società dello spettacolo”. Il punto è che nelle nostre società ipermoderne questo desiderio inconscio di essere una eccezione è riconosciuto e “soddisfatto” attraverso dispositivi molto elaborati sul piano della comunicazione e della spettacolarizzazione. Il Grande fratello e i vari reality sono un ottimo esempio, sono un dispositivo per riconoscere il desiderio di essere eccezione anche senza avere o mostrare nulla di eccezionale, né performance artistiche, né sportive, né intellettuali. E soprattutto senza assumersi la responsabilità di atti estremi. Basta essere come si è, questo basta per essere una celebrità. Il successo di questo genere di programmi mostra come tutti si identificano e si riconoscono nel vicino di casa, il quale pur non facendo nulla di particolare, ha raggiunto una posizione di notorietà. Non importa neppure se sia o no simpatico, intelligente, corretto ecc., comunque egli sia è una celebrità. Questa è l’operazione che la cosiddetta “società dello spettacolo” riesce a fare, “celebrando” la posizione di eccezione che in Riccardo troviamo invece “realizzata”. Ciò che Riccardo ci mostra è che l’eccezione si realizza nell’atto; mentre nella nostra società si ha la percezione illusoria di poterla acquistare attraverso oggetti di consumo o con una mera parata mediatica, in cui il rapporto eccezione-atto è eroso proprio dalla spettacolarizzazione.

Insomma, se tutto questo enorme meccanismo mediatico e consumistico funziona è perché arriva a far leva in maniera precisa su un aspetto inconscio, su una soddisfazione fantasmatica, sulla promessa di un risarcimento di godimento illimitato.

Nulla di strano allora che continuiamo a essere affascinati da Riccardo, pur non approvando le sue azioni.

 

L’istante di vedere e il tempo per agire

La posizione di eccezione, la decisione inarrestabile di Riccardo si traduce in una traiettoria temporale che porta le sue rivendicazioni, la sua sete inestinguibile verso una accelerazione progressiva che segna il tempo tragico dell’opera. Forse proprio l’omissione del dubbio, della riflessione, della coscienza, del pensiero sull’azione, ci permette di mettere a fuoco la peculiarità di questo personaggio,  qualcosa della sua follia.

Jacques Lacan ha indicato con il concetto di “tempo logico” tre scansioni nel rapporto tra il soggetto e l’atto: 1. l’istante di vedere, 2. il tempo per comprendere, 3. il momento di concludere. Normalmente questi tre tempi danno conto del dispiegarsi dell’agire umano là dove il soggetto è chiamato a una scelta, a una decisione, a una presa di posizione particolarmente importante, significativa, che può portare a una trasformazione nella sua esperienza e/o nella sua vita. Trasformazione resa possibile proprio dalla scansione di questi tre tempi, che devono articolarsi tra di loro. Come tre tappe che ci portano al punto finale di compimento dell’azione, decisione, scelta.

Ecco allora che l’atto tragico shakespeariano è come una lente d’ingrandimento messa a fuoco su quello che accade quando questa successione viene deformata, distorta, disarticolata e uno di questi tempi viene slegato dagli altri due, compresso o dilatato, espulso o misconosciuto. In Riccardo sembra avvizzito proprio il secondo tempo (il tempo di comprendere) dove siamo soliti collocare la psicologia di un personaggio. Questo tempo sembra contratto in questo unico passaggio del monologo iniziale in cui l’evidenza della sua deformità riassorbe nell’istante di “vedere” ogni possibilità del tempo per “comprendere”. L’evidenza di ciò che vede mette fuori gioco ogni possibile comprensione, simbolizzazione, metaforizzazione, sublimazione: «non trovo altro diletto per passare il tempo se non di guardare la mia ombra al sole e meditare sulla mia deformità».

La sua deformità diventa causa e tempo soggettivo da cui sorge l’azione, la scelta che non metterà più in questione. Da qui in poi nessun dubbio, nessun tempo per comprendere e riflettere. Da qui la scelta della rivendicazione che farà di Riccardo l’eccezione. Tutto questo ci fa capire meglio in che senso la sua posizione di eccezione implica una contrazione della “normale psicologia”, la quale si dispiega, per tutti noi, nei tre tempi logici che ci ha indicato Lacan. Abbiamo visto come liberandosi del pensiero, del dubbio, della coscienza, in altre parole del tempo per comprendere, il vettore di Riccardo può partire dall’istante di vedere, l’occhio è puntato sulla sua condizione, sulla sua deformità, sulla sua ombra, può prenderne atto e passare direttamente all’azione, senza mai nessun ripensamento. Il suo è un pensiero esclusivamente strategico, non psicologico. È un pensiero del tempo di guerra, un pensiero tutto proiettato a fare di ogni cosa, di ogni situazione, di ogni parola, di ogni persona, uno strumento di lotta o di conquista. Un pensiero sostenuto esclusivamente dal tempo che gli corrisponde: il tempo dell’azione, veloce, risoluto. La riflessione e il dubbio sono nemici della decisione:

Vieni, ho imparato che il pauroso commento è pesante seguace del pigro indugio: l’indugio attira l’impotente e viscido strisciare della sconfitta. Allora, l’ardente e rapida azione sia la mia ala. (…) la decisione è il mio scudo. Bisogna essere molto rapidi quando i traditori affrontano il campo.[12]

Ecco la dimensione propria di Riccardo, il suo fascino tutto raccolto in quell’ora, in quel tempo forsennato, in quel ritmo che solo lui può sostenere. Non c’è  posto per “l’automa dell’orologio” che batte il tempo e rimanda ogni realizzazione con il suo tick, tack, tick, tack, tick….[13] Da qui l’intolleranza anche per il più fedele dei complici, Buckingham, nel momento in cui questi introduce una sospensione: «Concedetemi un po’ di respiro, una pausa». Qui l’intolleranza per qualcuno che tradisce il tempo dell’ora, per introdurre quello della riflessione, è perentoria.[14]

La posizione dell’eccezione è quella dell’uomo solo, nessuno può veramente far coppia con lui. Né il suo complice fedele, Buckingham; né la donna che conquista, Lady Anna. Riccardo non può avere compagno, né avere amante. Il suo desiderio non è mai vincolato al desiderio dell’altro, al tempo dell’altro. La sua corsa non rallenta mai poiché questo vorrebbe dire aspettare l’altro ed entrare in dialettica, in rapporto con lui. Amleto invece è sempre nella dialettica con l’altro (la madre, il padre, Ofelia, Claudio, Orazio, Laerte). È sempre in rapporto all’altro, per verificarne i sentimenti, le intenzioni, i desideri.

Amleto e il desiderio dell’Altro

Il tempo di Amleto è logicamente diverso da quello di Riccardo. È un tempo preso, irretito nella dialettica con l’altro. Cosicché egli stesso, il suo reale desiderio appare sottoposto e conseguente al desiderio degli altri, fondamentalmente al desiderio della madre. In tal senso Amleto non è nella posizione di “eccezione”, non se ne infischia degli altri e dell’Altro sociale, istituzionale, morale. Anzi è completamente impegnato a rimpiangere l’ordine simbolico paterno, a verificare i pensieri e le vere intenzioni degli altri, a voler fare giustizia, a interrogare la questione dell’essere e lo scarto tra apparenza e verità. Fin tanto che la sua attenzione rimane sulla questione dell’Altro, il suo atto, la sua vendetta non si compie. Il tempo per la decifrazione dell’Altro non è mai abbastanza. Questo tempo per comprendere può diventare un buco nero in cui si viene risucchiati. Un tempo che rende obliqua la relazione tra il soggetto e le sue azioni. Ne sappiamo qualcosa anche noi quando ci lamentiamo del fatto di essere condizionati dagli altri, dalle loro decisioni, da quello che pensano, da quello che vogliono: “Quello che voglio è smettere di farmi condizionare dagli altri… voglio fare una cosa senza stare a sentire questa o quell’altra persona… decidere senza perdere tempo a capire quello che farebbero gli altri al posto mio… voglio vivere la mia vita e non quella degli altri…”.

Rivendichiamo così la nostra autonomia nel prendere decisioni, nell’affermare quello che si vuole e che si sente, indipendentemente dal rapporto con gli altri. Quando siamo presi dalla decifrazione dell’altro il tempo si infinitizza e siamo trascinati in una metonimia del desiderio che, in quanto dipendente dall’altro, diventa molteplice, errante, mutevole, interpretabile; poiché l’altro è sempre molteplice, mutevole, da interpretare. Il proprio desiderio si aliena inseguendo l’immagine dell’altro. In questo continuo rinvio il desiderio rischia di fissarsi in soddisfazioni immaginarie che si sostengono sulle gambe dell’affetto. Infatti, il vissuto, l’emozione, l’empatia, l’intersoggettivita è ciò che ci vincola all’altro e che fa dipendere il nostro desiderio da quello dell’altro. L’affetto è da noi preso nell’esperienza quotidiana come prova, cartina tornasole di ciò che siamo e di ciò che vogliamo. Mentre la questione di “ciò che veramente si vuole”, diversamente dall’affetto, che si dispiega nell’ambito del “sentire”, non può che chiamare in causa l’atto come verifica. Non l’affetto ma l’effetto. L’affetto verifica il desiderio dell’altro; l’atto verifica il proprio desiderio, o meglio, la causa del proprio desiderio. Per questo, l’atto porta in campo la responsabilità, ognuno è responsabile del proprio atto, laddove invece l’affetto porta in campo sempre una certa alienazione o una dialettica con l’altro: nessuno è responsabile fino in fondo del proprio sentire.[15]

Generalmente gli affetti nell’esperienza di ognuno di noi godono di un grande credito. Un credito che poggia nella supposta relazione tra affetto e verità. L’affetto come ciò che permetterebbe di accedere alla propria verità soggettiva, la testimonianza di un accesso autentico, diretto, la cui garanzia sarebbe data dal coinvolgimento del corpo: «nell’affetto il corpo testimonierebbe a sue spese l’effetto di verità, nella palpitazione, la sudorazione, la trepidazione, l’affetto direbbe il vero».[16] Il pensiero può trarre in inganno, perdersi nei labirinti del dubbio, ma l’affetto, la sua corporeità, sembrerebbe indicare la via per ripristinare il rapporto con il vero.

Questa prospettiva si accorda inoltre con una certa presa di posizione teorica nella psicoanalisi, ampiamente diffusa, riconducibile all’idea che, lì dove i conti non tornano riguardo agli affetti, occorre portare alla luce gli affetti inconsci. Più semplicemente è l’idea secondo cui gli affetti siano dell’ordine del rimosso e che nell’esperienza analitica occorra sottrarli alla rimozione. Riportarli alla luce del giorno grazie alla comprensione, alla consapevolezza, permetterà di vedere con chiarezza e questo dissolverà i nodi oscuri, i conflitti e i sintomi.

Questo vuol dire, per esempio, che il compito analitico sarebbe: svelare l’amore che si nasconde dietro l’odio e viceversa, oppure presentificare un affetto da cui si fuggirebbe, come un sentimento di colpa o una paura inconscia e così via. «Tutto un registro della letteratura analitica è così costruito su questa enormità che sono gli affetti rimossi che si tratta di far apparire nell’esperienza analitica e di interpretare al soggetto».[17] In tal modo il rapporto verità-affetto non viene messo in questione, ma addirittura rafforzato, raddoppiando il piano in cui si dispiega la loro relazione: verità inconscia ↔ affetto inconscio.

Ma qui, in Amleto, come già Freud aveva sottolineato, non manca il ribrezzo, l’odio, la rabbia, l’ostilità e il desiderio di vendetta di Amleto per lo zio fratricida: tutti affetti, emozioni, stati d’animo, umori ben presenti e consapevoli. La questione non è portare alla coscienza i veri affetti. Ci sono già. La questione è che tali affetti sono inoperosi, inefficaci in quanto non in grado di causare l’azione. L’affetto, che pur sostiene l’intento di Amleto, non è sufficiente a causare l’atto di vendetta.

Non siamo di fronte, neppure per il fondatore della psicoanalisi, a una tragedia dell’odio, del disprezzo, della vendetta. E in effetti, non c’è un crescendo dell’odio: non c’è più odio alla fine che all’inizio. La tragedia di Shakespeare supera di misura la tragedia della vendetta. La cosiddetta play scene sembrerebbe proprio un momento di verifica e non solo della colpa del re, ma anche degli affetti che si sono impossessati del nostro eroe. L’odio è giustificato, adeguato alla situazione, non è preso nell’inganno, il fantasma non mentiva. Ma, è questo il punto, se tutto ciò verifica la colpa dell’altro, non per questo segna l’ora della verità per Amleto. Il suo tormento non si arresta: il suo gesto non si compie.

Come sottolinea Lacan: «tutti i sentimenti lo spingono ad agire contro l’assassino di suo padre: sentimento di usurpazione, è stato spodestato – sentimento di rivalità – sentimento di vendetta. […]. E non agisce. Comincia qui il problema».[18]

La breve nota che Freud ci ha lasciato nell’Interpretazione dei sogni sull’Amleto, pur nella sua laconicità, mette in evidenza una impostazione teorica rispetto al concetto di affetto che non lascia equivoci e che sarà formalizzata e approfondita in tutta l’opera dello psicoanalista. L’affetto è spodestato dal trono della verità.[19] Certamente questo non vuol dire che l’affetto sia di per sè sganciato dalla verità, ma che, come per altri ambiti della nostra esperienza, questo rapporto non è garantito, non è dato a priori. Come i nostri pensieri, le nostre intenzioni, le nostre motivazioni, anche l’affetto è da verificare nel senso che «si tratta di farlo vero».[20] Così come ci mostra Freud attraverso il montaggio che opera tra il mito di Edipo e la tragedia di Amleto, indicando la strada che è necessario percorrere fino in fondo per operare tale verifica: la strada che dall’affetto conduce all’articolazione del desiderio nell’inconscio. È qui che va ricercata la causa, il vero motore che origina l’azione o la sua inibizione.

Fino a quando la causa del nostro desiderio non ci tocca siamo “attratti” nella dinamica degli affetti, “irretiti” nei labirinti del pensiero, del dubbio, delle interpretazioni, “alienati” nel desiderio dell’altro.

Fin quando Amleto non viene toccato dalla causa del proprio desiderio, potrà crogiolarsi nel tempo del comprendere: «Ed io vigliacco… resto a crogiolarmi nel fango come un povero bamboccio che sogna, la mia causa non mi tocca e non so dire nulla».[21]

Cosa ci indica precisamente questo descriversi come «unpregnant of my cause»?

Si tratta, in primo luogo, seguendo Lacan, di individuare cosa frena la spinta di Amleto, davanti a cosa cede; consideriamo attentamente la scena in cui dopo la play scene incontra la madre. È una scena caratterizzata da una sorprendente oscillazione di Amleto. Nel dialogo dapprima lo vediamo, «partito come una freccia»,[22] scongiurarla di prendere coscienza del punto cui è arrivata. Il dialogo è tutto un incalzare che non manca di effetto per la regina: «Non parlar più, Amleto», «Non più Amleto»;[23] e ancora, «Basta, basta»;[24] fino a: «Oh Amleto, m’hai spaccato il cuore in due».[25] Nel frattempo è ricomparso anche lo spettro del padre. Ma proprio nell’istante in cui, piegata ai colpi delle dure parole, la regina domanda «che debbo fare?», assistiamo a un rapido viraggio nel discorso del figlio: «Oh, in nessun modo quello che vi ho chiesto io. Lasciate che il gonfio re…».[26] Sopraggiunge il momento della brusca e patetica ricaduta dove l’impeto di Amleto si spegne nell’acconsentire al volere della madre: «In questo tempo dell’oscillazione il suo appello sparisce, si dissolve nel consenso al desiderio della madre. Cede le armi davanti a questo desiderio che gli sembra ineluttabile, tale da non poterne essere liberato».[27]

Rispetto all’analisi freudiana, troviamo qui un certo spostamento che risponde a una concezione dialettica del desiderio, che Lacan ha introdotto. Ciò contro cui lotta Amleto non è tanto il suo desiderio per la madre, quanto il desiderio di sua madre. O più precisamente, lotta contro il proprio desiderio nella misura in cui è sottomesso al capriccio di quello materno. Lacan considera tale scena paradigmatica nel mostrare quanto la pratica psicoanalitica ha messo in luce riguardo all’articolazione inconscia del rapporto tra il soggetto e l’Altro: «Non c’è momento in cui, in maniera più completa, la formula “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro” sia più tangibile, più compiuta, tale da annullare completamente il soggetto»[28].

Il desiderio di Amleto è schiavo del desiderio di sua madre. Tale dipendenza è riconducibile a quel voler essere ciò che manca all’Altro, a essere il complemento dell’altro, a riempire appunto i suoi vuoti; ed è appunto questo movimento inconscio verso la mancanza e il desiderio dell’Altro a ridurlo in schiavitù. Così, nella nostra vita quando ci identifichiamo in quello che manca al nostro partner, diventiamo dipendenti dal suo desiderio che ci incatena, poiché ciò che ci definisce e ci fa sentire vivi è proprio essere la cosa che “risponde” e risolve la sua mancanza: desidero essere desiderato da lui/lei; desidero essere ciò che gli manca. E quando il desiderio dell’altro è insaziabile, vorace, mutevole, irriducibilmente capriccioso, quando mostra di non saziarsi nè di scendere a compromessi, allora diventa un enigma, oscuro o indecifrabile.

Non è forse così che si presenta il desiderio della madre ad Amleto? Questo insaziabile desiderio che vira così velocemente da un oggetto pieno di virtù (il padre) a uno di nessun valore (lo zio) mostrando il lato oscuro, ingovernabile, mostruoso, del desiderio femminile. Un desiderio che lui stesso non deve osare toccare, turbare, evocare (come ingiunge lo spettro paterno) se non al prezzo di venirne investito, travolto. E se Amleto mette in scena il groviglio inestricabile con ciò che ci lega all’altro a nostra insaputa, Riccardo invece, ancora una volta, si erge in controluce come paradigma di libertà dall’altro.

 

Sciogliere gli ormeggi dall’Altro

Riccardo nello scandire il tempo della sua azione mette in scena il sogno nascosto di tutti noi: liberarsi, mollare gli ormeggi, disimpegnarsi non solo dalla morale e dalla verità, ma anche da ciò che vincola il proprio desiderio al volere dell’altro. Nella dimensione in cui Riccardo trascina gli altri, non c’è tempo per “prendere fiato”:

Riccardo: […] Desidero la morte di quei bastardi; e vorrei che ciò avvenisse subito, Che rispondi? Parla, sbrigati.

Buckingham: Vostra grazia può fare  ciò che desidera.

Riccardo: Bene, bene, sei di ghiaccio; il tuo affetto si raffredda. […]

Buckingham: Datemi un po’ di respiro, una breve tregua, mio signore, prima che possa rispondere in modo affermativo.[29]

Ma Riccardo non può dipendere dal tempo e dalla decisione dell’altro e, appena Buckingham esce, commenta: «Mi rivolgerò a qualche balordo dall’intento di ferro o a qualche ragazzo senza tanti scrupoli». Non c’è dialettica del desiderio, quindi non c’è dipendenza dal giudizio, dal desiderio, dalla parola dell’altro. Quindi non c’è senso colpa, dubbio, esitazione. Quello che in Riccardo ci colpisce da subito è l’assenza del dubbio; il pensiero riflessivo è in rapporto al dubbio.[30] Riccardo è svincolato dal dubbio, il suo pensiero non è riflessivo ma strategico, pensiero solitario, d’eccezione.

Se il dubbio non lo colpisce è perché non c’è tempo per intrattenersi con la richiesta di riconoscimento rivolta all’altro, né per cercare complicità. I suoi complici sono meri esecutori e non compagni di avventura con cui si condivide il peso delle proprie azioni. Anche quando entra in dialogo con gli altri, Riccardo non si sottopone mai realmente al desiderio dell’altro ma punta a conquistare l’altro al proprio discorso, portando in campo le sue doti persuasive: un vero campione del rovesciamento retorico. Ci appare diabolico non solo perché ottiene i suoi scopi attraverso atti sanguinari, ma soprattutto perché riesce quasi sempre a sedurre l’altro, a conquistarlo con l’inganno al suo desiderio, e in realtà questo ci inquieta più della sua efferatezza. L’idea di poter essere conquistati e trascinati dal desiderio di un altro “mostruoso” è probabilmente il tema di molti dei nostri incubi.

Non si tratta di semplici atti di abiezione morale, ma di una vera e propria prova di guerra, di una strategia retorica, di arte della conquista. Il dialogo iniziale con Lady Anna è esemplare. Chi mai si sognerebbe di “conquistare” il cuore della donna a cui si è ucciso il marito e il suocero, per di più durante il corteo funebre, e nella identità di uno storpio deforme e abietto? Impossibile. Appunto! Lui è l’eccezione perché può misurarsi con l’impossibile. Può farlo proprio perché non è come gli altri, gli altri che hanno identificazioni, che credono nella coerenza, nella morale, nella parola vera. Lui è un minus che può abbandonarsi all’atto puro, senza credere fino in fondo ai sentimenti, alle identificazioni, alla parola e al suo rapporto con la verità. Il suo vantaggio è che lui sa che gli altri invece ci credono.

Si veda la strategia retorica di ripresa e rovesciamento delle parole di Lady Anna per condurre questo dialogo verso la sua conquista. Alessandro Serpieri ha indicato nella antanaclasi la figura retorica dominante di questo dramma: «ripetizione di una stessa parola con due significati diversi, che con grande frequenza fa da cerniera a due battute di dialogo. La seduzione di Lady Anna è condotta soprattutto secondo questo gioco retorico che anima un formidabile duello verbale».[31]

Alcuni brevi esempi rendono l’idea di questo duello:

Anna: […] non v’è belva tanto feroce che non provi qualche senso di pietà.

Riccardo: Ma io non ne provo alcuno, perciò non sono una belva.

Anna: O miracolo, quando i diavoli dicono la verità!

Riccardo: Miracolo maggiore quando gli angeli sono infuriati! Degnati, o divina perfezione di donna, di concedere che io possa giustificarmi in ogni punto dei delitti che mi attribuisci.

Anna: Degnati, o deforme infezione d’uomo, per questi delitti noti a chiunque, di concedermi in ogni punto di maledirti, o maledetto. […]

Riccardo:[…] Chi è stato causa delle immature morti […]?

Anna: Tu ne fosti la causa e il maledettissimo effetto.

Riccardo: La vostra bellezza fu la causa […]

Anna: Tu contamini i miei occhi.

Riccardo: I tuoi occhi, dolce signora, hanno contaminato i miei.[32]

Vediamo bene come per Riccardo, nel dialogo con l’altro, tutta la sfida è giocata nel tentativo di imporre il valore di verità della propria parola. Più precisamente, il fatto che la sua parola risuoni vera per l’altro, non per lui. Abbiamo qui un’altra sfumatura del suo essere un’eccezione. Diversamente da Amleto, in Riccardo c’è una padronanza di sé data da un punto ben preciso. La parola di Riccardo non deve essere in rapporto con una realtà interna, emozionale, soggettiva, come è invece per tutti gli altri. Per lui una volta svincolata da questo ormeggio al sentire, la parola è piegata alla sua mira, è usata per trascinare l’altro verso i propri scopi. Possiamo dunque considerarlo anche come il paradigma della seduzione. Le parole di Lady Anna nel momento in cui cede testiminiano proprio di questo sua caduta nella trappola della verità, tesa dalle parole di Riccardo:

Anna: Vorrei conoscere il tuo cuore

Riccardo: È effigiato nella mia lingua

Anne: Ho paura che mentano tutti e due

Riccardo: Allora non vi fu mai uomo veritiero.[33]

Riccardo seduce Lady Anna rassicurandola sull’effetto di verità dato dalla congiunzione di lingua e cuore.

Altro mirabile esempio di questa posizione di Riccardo rispetto alla parola strategica, lo troviamo nel dialogo con Elisabetta, quando la convince a darle sua figlia come sposa.[34] Vediamo allora come per Riccardo la parola è strumento di guerra, arma, azione, mentre quella di Amleto è dialettica, comprensione ermeneutica. Riccardo, facendosi beffa della verità, è all’opposto di Amleto, che invece è completamente nella credenza del rapporto parola-verità, che si angoscia del loro possibile split ed è preso nel dubbio, nell’indecidibile della distanza tra sembrare ed essere, tra verità e simulazione, tra le parole e le cose, tra essere e non essere. Riccardo è fuori dal dilemma, non ha nessuna nostalgia per l’essere, la verità, i sembianti e la parola è già da sempre sganciata da tutto questo, il discorso è fondamento (prima di ogni realtà) e strategia (al di là di ogni verità, giustizia o coerenza). Per Riccardo la realtà è “il diritto imprescrittibile al godimento”, la parola è lo strumento per realizzare questo diritto e non per arrivare a una verità.

C’è però un punto della tragedia in cui Riccardo vacilla nella sua posizione di eccezione e solitudine: sorpreso, egli stesso, della conquista di Lady Anna è tentato di abbandonare la sua “eccezionalità” e di credere possibile una vita normale in cui potersi vestire e specchiare come tutti gli altri. È l’unico momento in cui il desiderio dell’altro sembra toccarlo. Consideriamo la sorpresa di Riccardo subito dopo il cedimento di Lady Anna:

Vi fu mai donna corteggiata in questo stato d’animo? Vi fu mai donna vinta in questo stato d’animo? Sarà mia, ma non la terrò a lungo. Come? Io che le ho ucciso il marito e il suocero, conquistarla mentre ha il cuore gonfio d’odio, maledizioni sulle labbra e lacrime negli occhi per me, testimone insanguinato del suo odio? Lei con Dio, la sua coscienza e tutti i motivi contro di me, e io con nulla per sostenermi se non il demonio e i miei sguardi di menzogna; eppure vincerla: tutto il mondo contro nulla! […] eppure Anna abbasserà gli occhi su di me. […] Su di me che non valgo la metà di Edoardo? Su di me che zoppico e sono così deforme?[35]

Ecco allora che per un attimo Riccardo, come effetto di questa conquista, vacilla, si mostra tentato di credere nell’effetto che le sue stesse parole hanno generato in Lady Anna e di abbandonare la sua posizione di eccezione, fino a mettere in questione l’evidenza della sua deformità, fino al punto di volersi comprare uno specchio e invitare il sole a stampare la sua ombra per poterla ammirare:

Scommetto il mio ducato contro un misero quattrino che in tutto questo tempo mi sono sbagliato sulla mia figura. Sulla mia vita, benché non riesca a capirlo, essa mi considera un uomo meravigliosamente naturale. Andrò a comprare uno specchio, e incaricherò una ventina di sarti di studiare modelli che vestano bene il mio corpo. Poiché sono entrato in grazia con me stesso, voglio restarci con qualche piccola spesa […] Finché non avrò comprato uno specchio, risplendi dunque bel sole, in modo che io possa mirare la mia ombra mentre cammino.[36]

Ritroviamo qui quanto Freud, attingendo al mito classico di Narciso, indicherà come momento costitutivo del soggetto: l’investimento libidico della propria immagine, cioè il fatto che si prenda ad oggetto d’amore la propria immagine (l’Io). Ritroviamo, inoltre, quanto Lacan riprenderà con la concezione dello “stadio dello specchio”, introducendo un elemento ulteriore che emerge in modo evidente nel monologo di Riccardo: la propria immagine può essere investita solo nella misura in cui è anche l’Altro a riconoscerla.

Questo monologo rappresenta l’unico momento di vacillamento, di sospensione della traiettoria e accenno di cedimento dalla posizione di eccezione, l’unico momento prima dell’altro vacillamento finale che segna il tempo del declino, del fallimento di Riccardo.

 

Il tempo di comprendere: il dubbio vorticoso e la sospensione

L’ora dell’incipit di Riccardo, fa risuonare per contrasto l’entrata in scena di Amleto, segnata dall’allora, da uno sguardo rivolto all’indietro, al tempo passato, al tempo in cui suo padre era in vita e le cose erano al loro posto.[37] Ora, invece, tutto è preso in un tempo accellerato che gli sfugge, non comprende e non gli appartiene: «l’arrosto del funerale è stato servito freddo alle nozze»[38], è passato soltanto un mese… un tempo troppo breve. Non c’è stato nemmeno il tempo di adempiere adeguatamente i riti funebri.

La tragedia si innesca nel momento in cui a questo personaggio tutto rivolto alla nostalgia del tempo passato (icona del melancolico nostalgico), a questo studente di Wittenberg tutto rivolto allo studio della filosofia, lo spettro gli presenta un mandato, un’azione da fare nel presente. Dal sapere deve passare all’atto. Questo atto ha un significato preciso: lo chiama a rimettere le cose in ordine: «Il mondo è fuori squadra: maledetto tempo, esser nato per rimetterlo in sesto!».[39] Dunque Amleto come colui che è chiamato dal destino (I was born) a compiere l’atto che rimette il mondo in squadra. Ora, tale mandato si impone come una vera e propria scansione che segna una rottura con il prima.

Ma il tempo di Amleto non è quello di Riccardo.

Come ormai acquisito, la famosa nota di Freud parte dalla considerazione che «il dramma è costruito sull’esitazione di Amleto ad adempiere il compito di vendetta assegnatogli»[40], per dare svolgimento alla questione del «che cosa dunque lo inibisce»[41] nella realizzazione. La risposta transita per almeno due passaggi. Il primo, messo a fuoco da Freud, il secondo da Lacan.

Il primo: «Amleto non deve affatto apparirci come una persona incapace di agire in generale»;[42] vediamo bene come per Freud non si tratta di pensare la dimensione dell’agire come di per sé estranea o impossibile per il principe di Danimarca, così come non gli è estraneo neanche il crimine e l’assassinio, dal momento che Amleto può uccidere Polonio con la stessa facilità con cui manda a morte i due cortigiani suoi ex amici, Rosencrantz e Guilderstern. Per Freud non è il gesto criminale in sé che è impossibile ad Amleto, ma soltanto quel particolare compito di vendetta. Un compito contraddistinto da una «particolare natura»[43] che non è immediatamente afferrabile, che non è deducibile a priori, ma che può essere decifrata soltanto considerando le coordinate in cui il gesto si iscrive. Coordinate che Freud cerca di rintracciare a partire dalle figure del padre e della madre così come si articolano nell’inconscio: «Amleto può tutto tranne compiere la vendetta sull’uomo che ha eliminato suo padre prendendone il posto presso sua madre. L’uomo che gli mostra attuati i suoi desideri infantili rimossi».[44] Ecco che nel gesto interrotto di Amleto risuona tutta la problematica dell’inibizione, di cui la vita e la clinica non fanno certo difetto di esempi.

Non è un caso allora che proprio intorno a questo punto – il rapporto del soggetto con l’atto e le sue impasse – proliferi il successo delle scienze cognitive, degli approcci strategici che pensano di poter allungare il collo al soggetto fino a raggiungere l’ideale scientifico di un agire calcolato, computato in tutte le sue premesse, nei suoi moventi così come nelle sue conseguenze. In questi approcci si postula una sorta di continuità tra il pensiero e l’azione, con la pretesa di sgombrare il campo da ogni equivoco, enigma, da ogni scarto irriducibile, da ogni rischio: è l’ideale della condotta razionale.[45] Si vorrebbe superare, o risolvere nel calcolo e nella strategia, l’impasse che ci coglie in certi momenti cruciali e che il gesto in sospeso di Amleto ci mostra; gesto che Freud raccoglie non per consegnarci una soluzione tecnica e strategica in grado di gettare un ponte tra il pensiero e l’azione, tra l’intenzione e l’atto, ma per calarlo nella dimensione dell’inconscio, per cercare la causa della sua sospensione. Solo quando tocca la causa della propria impasse il soggetto potrà trasformare il rapporto tra desiderio e atto. Il passo che Amleto non riesce a compiere è un enigma che Freud cerca di decifrare attraverso un montaggio dove il gesto dell’eroe prende senso a partire da un’altra scena, a partire da una scena propriamente mitica e di cui Amleto non sa nulla:

Nell’Edipo, l’infantile fantasia di desiderio che lo sorregge viene tratta alla luce e realizzata come nel sogno; nell’Amleto permane rimossa e veniamo a sapere della sua esistenza – in modo del tutto simile a quel che si verifica nella nevrosi – soltanto attraverso gli effetti inibitori che ne derivano.[46]

Abbiamo così una scena che rimane sottratta alla coscienza ma che non di meno svolge un ruolo determinante nell’impedire al desiderio di esprimersi. E’ la scena edipica in cui il padre incarna la legge che proibisce al desiderio del figlio, rivolto verso la madre, di realizzarsi. Anzi è proprio il fatto di rimanere inconscia a rendere efficace questa scena, è il fatto di non giungere alla coscienza a rendere efficace la sua proibizione e fare della vendetta di Amleto un gesto interdetto, proibito.

Ora, se Freud illuminando la vicenda di Amleto attraverso quella di Edipo aveva consegnato all’uomo moderno il destino d’impasse (inibizione, rimozione) a cui va incontro l’atto, Lacan cercherà invece di spingere l’elaborazione psicoanalitica oltre tale congiuntura, introducendo un secondo passaggio.

Se insegue la lunga traiettoria del gesto di Amleto fino al punto estremo della tragedia – dove in una sorta di mattanza finale si compie la vendetta – è per cercare di mettere a fuoco la sua condizione di possibilità.

La netta sensazione che si ha leggendo il commento lacaniano è quella di uno studio attento, meticoloso, che scruta il testo in tutte le sue pieghe, senza tralasciare nulla. Un commento articolato, complesso, di gran lunga più esteso della laconica nota freudiana e che, per ragioni di sintesi, ci limitiamo a riprendere, stringendolo intorno ai due interrogativi fondamentali che lo percorrono. Il primo, lo abbiamo già visto, è quello messo a fuoco da Freud: “che cosa impedisce ad Amleto di realizzare l’atto della vendetta?”. Il secondo, invece, è quello proposto da Lacan, che sposta l’orizzonte del problema più in là, puntando sulla questione del “che cosa deve accadere affinché, alla fine, la vendetta giunga a compimento?”.

Abbiamo visto come, a partire dal dialogo di Amleto con la madre, paradigmaticamente “il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”. Nella prospettiva indicata da Lacan, allora, lo spostamento rispetto a Freud è dato dal fatto di situare il punto di impasse nella dipendenza di Amleto dal desiderio della madre. Quindi, mentre per Freud, Amleto non può compiere la vendetta dal momento che equivale a uccidere l’uomo che gli mostra attuati i suoi desideri edipici (rimossi, interdetti dalla legge paterna), per Lacan non può farlo, perché andrebbe contro il desiderio della madre: la madre desidera Claudio e Amleto non può andare contro questo desiderio. Il punto di impasse è situato nella schiavitù rispetto al desiderio dell’Altro. Quella schiavitù da cui ognuno sogna di liberarsi, ma al tempo stesso fa di tutto per mantenere. Presi come Amleto in questa schiavitù, non rimane che sognare la libertà che un personaggio come Riccardo incarna per tutti noi. Ma pur sognando la libertà di Riccardo non possiamo fare a meno che riconoscerci in Amleto, mantenerci in rapporto con l’altro.

Siamo presi apparentemente tra due posizioni problematiche che, ai rispettivi estremi, si manifestano in una cesura, un taglio insostenibile. La folle corsa di Riccardo si svolge tutta compressa tra l’istante di vedere e il tempo per agire,  tagliando il tempo per comprendere. La posizione di Amleto è invece imbrigliata nel tempo per comprendere che elude il tempo di agire, di concludere. Potremmo dire, allora, che questo tempo per comprendere, tempo che non riesce a decidere, che si ingarbuglia, che si dilata e si avviluppa su se stesso, ci consegna un soggetto lacerato, preso in una divisione che appare come follia, follia che però ha del metodo. Il tempo sincopato, sospeso di Amleto fa balenare qualcosa della follia proprio in ragione del fatto di non riuscire a concludersi.

Amleto appare diviso e perciò indecifrabile e quindi folle. La follia la troviamo nominata nel testo, sono gli altri ad attribuirla al principe di Danimarca, gli altri personaggi che ruotano intorno alla vicenda e non conoscono la verità che gli è stata rivelata. Quello che lui dice e fa appare loro folle, in quanto non sanno da dove scaturisce. Non lo considerano folle Orazio, Marcello, Bernardo, che invece sanno. Anche noi lettori siamo al corrente della verità, della rivelazione dello spettro, perciò non consideriamo le sue parole deliranti, i suoi discorsi hanno un senso per noi. Eppure, anche per noi lettori Amleto rimane una figura in qualche modo avvolta nell’enigmaticità e nella imperscrutabilità. Come mai anche in noi che sappiamo i veri motivi delle sue “stranezze” permane quell’alone di follia? Quella verità, che gli altri personaggi non conoscono, e che invece noi condividiamo con lui (e Claudio), è una strana verità, pur costituendo tutte le ragioni per la vendetta rimane inoperativa per quasi tutta la tragedia, una verità che non basta a causare l’azione, per questo enigmatica.

A tal punto da costituire, ai nostri occhi, la chiave per comprendere la cifra della soggettività moderna e per intuire il germe della nostra stessa follia. Il soggetto moderno si costituisce a partire da questa condizione enigmatica; il soggetto che interroga sé stesso e si rivolge sul suo punto di opacità, punto in cui si scardina il rapporto tra  pensiero e azione, e che ci porta spesso a chiederci: “ma allora cosa voglio veramente, qual è il mio desiderio?”.

Dunque, la follia di Amleto è percepita da due vertici differenti ma che mirano lo stesso punto: la verità. Dal punto di vista di Polonio la verità è sottratta poiché lui non sa; dal punto di vista del lettore, che è lo stesso di Amleto, la verità c’è ma inefficace. Ed è questa inefficacia che interroga continuamente Amleto e noi con lui. L’ipotesi sottostante tanto l’analisi freudiana quanto quella che diversi anni dopo ha proposto Lacan, può essere così esplicitata:  è vero, Amleto è un enigma, una domanda aperta sul soggetto; ma, tale interrogativo prende consistenza come la questione del rapporto del soggetto con il proprio desiderio inconscio. È questo ciò che per ciascuno rimane opaco, enigmatico, al tempo stesso intimo ed estraneo – così intimo da risultare inaccessibile. Precisamente, la questione di ciò che veramente si vuole, non può sciogliersi, risolversi, verificarsi attraverso il pensiero né tantomeno attraverso il sentire (nel vissuto emozionale, negli affetti). Il desiderio non si articola con queste dimensioni dell’esperienza soggettiva ma con l’azione, il desiderio non può che verificarsi nella sua stessa realizzazione, lo abbiamo visto con Riccardo, non può che misurarsi nell’agire. La sua spinta è veramente così forte e libera da “ostacoli” fino a varcare la soglia dell’atto?

Hai paura ad essere nell’azione e nel coraggio quello che sei nel desiderio? Vuoi da un lato avere ciò che consideri l’ornamento della vita e dall’altro vivere come un codardo nella tua stessa stima, lasciando che il “Non oso” accompagni il “Vorrei”?[47]

Non sono parole di Amleto ma di Lady Macbeth, a indicare lo stesso problematico rapporto desiderio-azione. La stessa impasse.

Macbeth: due per una decisione

«Ho deciso, e tendo ogni facoltà corporea verso questa terribile azione».[48]

Sono le parole di Macbeth che chiudono il I Atto. Parole che indicano una decisione presa, ma  cosa ci è voluto per arrivare ad essa? Abbiamo innanzitutto la profezia delle streghe («Salve, Macbeth! Salve a te, che sarai re!»[49]), una profezia che giunge come una “interpretazione”: cioè come una parola che coglie nel segno e rivela un desiderio sconosciuto. Una profezia che improvvisamente porta in primo piano e dà voce a qualcosa che prima non si manifestava, a un desiderio che affiora solo adesso:

Il mio pensiero, il cui assassinio è ancora soltanto fantasticato, scuote in tal modo la mia struttura umana che ogni attività è soffocata dall’immaginazione e nulla è, per me, tranne ciò che non è.[50]

Macbeth considera che potrebbe essere il Caso a incoronarlo, ma non può far a meno di ascoltare questa profezia e il suo desiderio comincia a rivelare la sua impazienza. Sembra così muoversi verso la decisione:

La luce non veda i miei oscuri e segreti desideri. L’occhio non guardi quel che fa la mano; ma si compia l’atto che, una volta compiuto, l’occhio teme di vedere.[51]

Seguirà la lettera di Macbeth a Lady Macbeth dove nessun proposito di assassinio è accennato, ma dove immediatamente lei “legge” tra le righe due cose che non sono scritte: il gesto criminoso e l’esitazione di Macbeth nel compierlo. La decisione del crimine si produce proprio sotto la spinta istigatrice della moglie che si rende conto dell’esitazione del marito, del fatto che lui non è pronto.[52] È come se Lady Macbeth avesse ben presente la differenza tra fantasticare un desiderio e realizzarlo:

[…] temo tuttavia la tua natura: è troppo piena del latte dell’umana bontà per prendere la via più breve. Tu vorresti essere grande, non sei privo di ambizione, ma non vuoi che il male la accompagni. Ciò che desideri ardentemente, lo vorresti santamente. Non vuoi barare, eppure accetteresti di vincere con l’inganno.[53]

Ma non solo Lady Macbeth ha presente questa differenza tra il fantasticare e il realizzare, ma cerca proprio di introdurre quella dimensione necessaria per mettere alle corde il desiderio e spingerlo a passare dall’uno all’altro. Ecco allora che la sua risposta alla lettera del marito introduce quella dimensione che abbiamo già ritrovato in Riccardo, l’accelerazione, la via più breve: «Presto vieni, affinché io possa versare il mio coraggio nel tuo orecchio».[54] E ancora: «Ora io sento il futuro nell’istante».[55] È come se Lady Macbeth volesse togliere al marito ogni possibilità di fermarsi a pensare e a riflettere, sottrargli il tempo necessario a gettare ulteriore luce sulle conseguenze dell’azione, su ciò che seguirà.

Basta l’istante di “vedere”, cioè di riconoscere il proprio desiderio, è sufficiente, non serve ulteriore chiarezza. Anzi Lady Macbeth sa che far luce, far chiarezza è di ostacolo. Alla velocità della decisione dovrà seguire il buio che avvolga l’atto. In questa fase è l’accelerazione a scandire il tempo. Il loro dialogo è quello tra chi retrocede e chi incalza.[56] Al retrocedere di Macbeth la moglie risponde con la perentorietà dell’azione che segue il desiderio. Perché la causa del desiderio sia operativa deve essere presa nella fretta. Ciò che Lady Macbeth impone al marito, affinché il desiderio si realizzi nell’azione e non sia procrastinato indefinitamente, è la velocità.

Qui balena la funzione della fretta che Lacan ha visto come tempo in grado di porre il soggetto in una posizione de-psicologizzata, sganciandolo dalla possibilità di valutare, pensare, soppesare ulteriormente la realizzabilità del proprio desiderio, sganciandolo anche rispetto all’altro, all’intersoggettività, alla dialettica del desiderio sempre suscettibile di infinitizzarsi. La fretta confronta il soggetto con il momento di concludere. Come accade quando ci troviamo di fronte a una scelta, una decisione, un passaggio importante nella vita e stiamo lì a soppessare i pro e i contro. E se il rischio è quello dell’oscillazione infinita tra i due piatti della bilancia, l’urgenza, la scadenza è l’unico fattore che può spingerci a dire basta e a correre il rischio di fare la cosa “decisiva”: a volte può essere sposarsi, la decisione di fare un figlio, andare via di casa, lasciare un rapporto amoroso per un altro, ma anche altre scelte apparentemente meno rilevanti, dove in ogni caso si innesca il meccanismo dell’indecidibilità. In questi casi il tempo della fretta può spingerci ad alleggerirci dal peso della riflessione, del calcolo.

Nel Macbeth la rapidità fa sì che si consumi in un solo Atto la decisione di un crimine così gravido di conseguenze, una rapidità dove non si dà, né si coglie nessuna ragione. In fondo tutta l’opera è segnata da questa rapidità, da mutamenti improvvisi e radicali. In un senso per Macbeth e nel senso contrario per Lady Macbeth. Ancora una volta è un’accelerazione che, come non ha mancato di evidenziare Freud, produce come suo effetto l’impossibilità ad ogni motivo di prendere posto e svilupparsi:

Ma quali siano questi motivi, che in così breve tempo fanno di un uomo ambizioso e pieno di incertezze un tiranno sfrenato e della sua istigatrice dal cuore d’acciaio una donna malata e tormentata dai rimorsi, non si può secondo me indovinare.[57]

Ciò che non trova posto in questa accelerazione, sono proprio i motivi, le coniugazioni psicologiche che rendono comprensibili, interpretabili e trasparenti i personaggi. Si presenta così per il lettore qualcosa che risuona come enigmatico, oscuro,[58] che possiamo ora mettere in rapporto con la dimensione della velocità. Abbiamo quindi, oltre alla velocità, un’altra dimensione che percorre tutta la tragedia e ne dà il suo particolare colore noir. L’invocazione del buio e dell’oscurità, infatti, è ciò che prepara l’atto criminoso affinché non si vedano le sue conseguenze: «vieni, densa Notte, e avvolgi nel più oscuro fumo di Inferno, affinché il mio coltello acuminato non veda la ferita che fa».[59]

Amleto invoca la luce, la chiarezza e non la incontra mai, mentre i Macbeth invocano il buio, l’oscurità, la nebbia che nasconda il loro atto e loro stessi. Qui il buio è un altro modo, oltre alla velocità, di cancellare il tempo di comprendere.

Ma la velocità dei Macbeth non è la stessa di Riccardo, nei loro scambi di battute è entrato in scena l’orrore dell’atto che stanno per compiere; anche se in maniera residuale, si è aperto un tempo per comprendere, che non è presente in Riccardo. Forse proprio per questo hanno bisogno di invocare l’oscurità, la nebbia. E vediamo che cosa precisamente il tempo per comprendere prende di mira: le conseguenze dell’atto, il suo peso etico e morale e il rapporto che implica con la coscienza e la colpa.

Se l’inconscio e le fantasie di ognuno di noi pullulano di atti deplorevoli e immorali,  al tempo stesso occorre non dimenticare che una cosa è immaginarli, sognarli, mentre altra cosa è compierli. Ecco allora che l’invocazione del buio è un modo per coprire ciò che la coscienza ha già toccato, cioè che sarà una colpa insostenibile. In questa invocazione dell’oscurità, in questo voler evitare la visione del proprio crimine, c’è già un’ammissione di colpa, che preannuncia il fatto che non potranno disimpegnarsi dalle conseguenze dell’atto. Il tempo per comprendere, allora, non è soltanto una procrastinazione, un rallentamento, è così in Amleto ma solo nella misura in cui si dilata indefinitamente; quello che possiamo cogliere a partire dal Macbeth è la funzione necessaria di questo tempo logico, proprio perché ci mette in rapporto con le  possibili conseguenze dell’atto.  I vacillamenti che in maniera alterna colpiscono i due coniugi rivelano proprio il ritorno di questo tempo del comprendere che si vorrebbe sorpassare o avvolgere nel buio. Per arginare questo ritorno non basta neppure essere in due.

La decisione di Macbeth si produce solo nella complemantarità con Lady Macbeth, ma due Macbeth non fanno un Riccardo, perchè nello spazio che separa i due personaggi, nel loro confronto, nel loro dialogo alterno, anche se veloce, si è già introdotto lo spazio per pensare, e dunque la via attraverso la quale le conseguenze dell’atto torneranno su colui che lo ha commesso. Un ritorno che si svolge proprio attraveso quella struttura a chiasma[60] reperita da Freud; struttura che copre l’intero arco della tragedia:  dal momento della decisione fino a quello del ritorno della colpa. Freud parte dall’ipotesi che Shakespeare scomponga un carattere in due personaggi, i quali operano appunto a chiasma:

I germi di angoscia che si manifestano in Macbeth la notte del delitto non si sviluppano oltre in lui, ma in lei. È lui che prima dell’omicidio ha avuto l’allucinazione del pugnale, ma è lei che successivamente cade in uno stato di prostrazione psichica. Dopo il crimine, è lui che sente gridare nella casa: “Non dormire più! Macbeth uccide il sonno!” e perciò “Macbeth non dormirà più” (II, sc. 2). Ma non veniamo mai a sapere se davvero il re Macbeth non dorma più, mentre vediamo la regina che si alza nella stanza e parlando nel sonno tradisce la propria colpa. Egli era rimasto inerte a guardarsi le mani sporche di sangue, lamentando che “tutto l’oceano del grande Nettuno” (II, sc. 2) non sarebbe bastato a lavarle; la donna allora lo aveva confortato: “Un po’ d’acqua ci farà mondi di quest’atto”. Ma poi è lei che si lava le mani per un quarto d’ora e non riesce a togliere le macchie di sangue: “Tutti i profumi dell’Arabia non basteranno a rendere odorosa questa piccola mano” (V, sc.1). Si compie così in lei quanto lui aveva temuto nell’angoscia morale che lo aveva assalito; lei diventa il rimorso dopo il delitto, lui diventa la sfida ostinata: insieme, esauriscono ogni possibilità di reazione al crimine, come due parti disunite di una stessa individualità psichica.[61]

Se Freud ha considerato Lady Macbeth come un esempio di “coloro che soccombono al successo”, possiamo ora considerare come questo soccombere arrivi in un momento ben preciso, quando dopo il crimine l’atmosfera plumbea del dramma graviterà intorno al ritorno della colpa e non riuscirà più nè a dormire né a rimanere sveglia.

 

Rimanere a cavallo

Il soccombere al ritorno della colpa come effetto di un successo dell’azione, se è così dirompente nel Macbeth è proprio perché l’atto non è sostenuto né dal tempo per comprendere né dalla posizione di eccezione di Riccardo, nel quale la consapevolezza dell’atto criminoso, non inibisce, né ritorna come colpa: «E se re Edoardo è retto e giusto quanto io sono obliquo, perfido e traditore».[62]

«Io commetto il torto e sono il primo a recriminare: dei segreti misfatti a cui metto mani, attribuisco il grave carico ad altri».[63]

Ma anche per Riccardo arriverà il momento di vacillamento che presagisce la fine. Abbiamo già indicato un primo vacillamento nel momento in cui è tentato di munirsi di specchio, di curarsi della sua immagine, dopo aver conquistato Lady Anna. Lo abbiamo considerato come un momento di vacillamento, di sospensione della traiettoria, di cedimento dalla posizione di eccezione. Adesso possiamo anche metterlo in rapporto con il vacillamento finale che segna il tempo del declino, del fallimento di Riccardo. Benché apparentemente distanti e molto diversi tra loro per contenuto, svolgimento e conseguenze, è possibile metterli in rapporto proprio alla luce del fatto che si tratta di due momenti dove la posizione di eccezione scricchiola. Nel primo caso sotto la tentazione dell’amore e del riconoscimento dell’altro, nel secondo sotto il peso angoscioso della colpa. Qui il peso schiacciante delle sue azioni torna sotto forma di spettri nel sogno. Abbiamo un vacillare più radicale, irreparabile che lo porterà alla morte. «Datemi un cavallo»[64] è la frase che lo sveglia dall’incubo.

Spaventato dal sogno, cerca di riprendersi in un dialogo con se stesso in cui ritornano tutte le questioni che aveva rigettato: il dubbio, l’esitazione, la coscienza, la colpa e la questione dell’amore. Il dubbio e l’esitazione sono evidenziati dal tono stesso del monologo, dove la forma  interrogativa insiste per ben otto volte. La colpa mai affiorata alla sua coscienza è ora il tema centrale del suo interrogarsi, valga il verso: «tutti i delitti e tutti compiuti a ogni grado s’affollano alla sbarra gridando: Colpevole! Colpevole!».[65] Troviamo qui una scansione propriamente shakespeariana del tragico: il ritorno della colpa che segna il declino irrefrenabile dell’eroe.  Notiamo anche come ora invochi l’amore, innanzitutto l’amore per se stesso, come tentativo di ristabilirsi dallo shock angosciante del sogno: «Io amo me stesso!».[66] Ma questo sembra non bastare. L’amore per se stesso non basta se le altre creature non lo amano. Appare più come l’ultima ma tardiva invocazione disperata di quella logica del riconoscimento che abbiamo incontrato alla fine del dialogo con Lady Anna e che lui aveva, dopo un accenno di vacillamento, rifiutato. «Non c’è creatura che mi ami, e se muoio nessuna anima avrà pietà di me».[67]

Ma anche in questo caso, è solo un attimo, l’appello all’amore degli altri è subito soffocato dal grido: «Un cavallo, un cavallo! Il mio regno per un cavallo!».[68]

Una frase che rimane enigmatica, sin dal suo apparire, al risveglio dall’incubo: «Datemi un altro cavallo!». Un’invocazione che apre e chiude il tempo della sua fine.  Il cavallo segna il suo risveglio seguito dalla domanda: «di che cosa ho paura? » forse presentisce la sconfitta e cerca di fuggire? Così interpreta la sua invocazione il suo luogotenente Catesby: «Ritiratevi, mio signore, vi troverò io un cavallo!». Ma la risposta di Riccardo smentisce tale interpretazione e ribadisce: «Vile, ho puntato la mia vita su una scommessa, e accetterò il rischio del dado. […] Un cavallo, un cavallo! Il mio regno per un cavallo!». Non si tratta di fuggire, ma di rimettersi in sella dopo la caduta, dopo la caduta dalla groppa del suo orgoglio. È proprio quanto indica l’ultima frase dello spettro di Buckingam che risveglia Riccardo: «E Riccardo cada al colmo del suo orgoglio!». Cos’è questo irriducibile orgoglio se non la sua posizione di eccezione? Le sue ultime parole fanno eco a quelle con cui si sveglia dal sogno, nel tentativo disperato di riprendere la posizione da cui la colpa e l’angoscia lo hanno per un attimo scalzato.

Riccardo III non è una tragedia del potere, Riccardo non è una figura del possesso, dell’avere, rimane eroe tragico fino in fondo, un eroe dell’essere. Rinunciare a tutto ciò che ha per non perdere quello che è: un’eccezione! È il cavallo dal quale il ritorno della colpa lo ha disarcionato e sul quale vuole, fino alla fine, rimontare.[69]

 

L’atto di Amleto

Se situiamo una cifra fondamentale del tragico nel rapporto del personaggio con l’atto, nel suo affrontarlo a qualsiasi prezzo, finendo per soccombere, come pensare allora Amleto personaggio tragico dal momento che in lui domina la dimensione del pensiero, della riflessione che rinvia in continuazione il momento di concludere? Un personaggio anti-tragico, non in grado di farsi responsabile dell’atto a cui è chiamato, almeno fino al momento finale in cui il tempo della procrastinazione si rompe improvvisamente per liberare quello della realizzazione!

Portiamoci allora sul quinto Atto, quando Amleto fuggito dalla nave che doveva portarlo in Inghilterra per essere ucciso, rientra in Danimarca e sulla via del ritorno verso il castello s’imbatte nel funerale di Ofelia: è la scena del suo strazio! Proprio lui che nel famoso dialogo del terzo Atto aveva rigettato il suo amore, proprio lui che si era rivolto a lei con parole aspre e taglienti, cariche di rancore, proprio lui adesso si butta nel fosso dove sta per essere seppellita, per rivaleggiare con Laerte. Adesso non può neanche sopportare che il fratello pianga per lei: «Io amavo Ofelia. Quarantamila fratelli non potrebbero con tutto il loro amore raggiungere il mio totale».[70] Adesso ogni dubbio sull’amore che nutre per Ofelia è cancellato, ora piange Ofelia come un vero amante piange il suo amore perduto.

Come ha messo in risalto Lacan, siamo di fronte a una scansione fondamentale della tragedia, segnata dal grido con cui Amleto entra nella fossa: «quello sono io, Amleto il Danese»,[71] che introduce un nuovo tempo dove il principe del to be or not to be, l’eroe del dubbio non tentenna più: è il tempo di «dire “e uno”»,[72] in cui parola e azione si danno nello stesso istante, nella misura in cui “uno” è ciò che non si calcola, ma che si dà. È il tempo di non perdere più altro tempo in nessun ragionamento e in nessun calcolo.

Forse che il tempo di dire uno di Amleto è dello stesso ordine dell’ora di Riccardo? Da una parte possiamo dire di sì, se consideriamo come Amleto lascia cadere tutto il suo fardello di pensiero e si lancia improvvisamente verso il finale che lo attende. D’altra parte però non è propriamente così, se consideriamo come l’ora di Riccardo – questa follia di un tempo dove non c’è tempo per pensare – si dà immediatamente, sin da subito, sin dall’apertura della tragedia. Differentemente dall’Amleto dove invece si produce come passaggio discontinuo, scansione. Il tempo di “dire uno” segna un viraggio tanto cruciale quanto tragico solo perché si stacca da uno sfondo di sospensione ormai insostenibile, se non al prezzo di convertirsi in farsa. In ragione di ciò, il commento di Lacan considera come la vendetta finale sia la risultante di due momenti racchiusi in due scene molto distanti tra loro. Il primo è quando il fantasma del padre gli svela la verità sul crimine compiuto dallo zio, consegnandogli insieme al mandato della vendetta anche tutte le ragioni per compierla. Il secondo invece è proprio la scena del funerale di Ofelia, nella quale entra in gioco ciò che finalmente può muovere Amleto. Sono questi i due momenti che Lacan congiunge con un rapido arco, quello in cui si danno le ragioni, il primo, e quello in cui si introduce la causa, il secondo. Distinzione fondamentale su cui abbiamo già insistito.

Ma in che modo, allora, in questa seconda scena è la funzione della causa a fare il suo ingresso?

La risposta è data da Lacan attarverso un montaggio inedito dove la scena del funerale è messa in prospettiva con quella dimensione propriamente umana, ma al tempo stesso ripresa ed elevata a nozione psicoanalitica da Freud: il lutto. Un montaggio che permette di far brillare l’assenza di tale elemento lungo la tragedia, sin dal suo momento di apertura: come il fantasma del padre sorge proprio dal buco lasciato aperto dall’assenza di ogni ritualità funebre, così il cadavere di Polonio trascinato e nascosto «costituisce l’ennesima derisione di ciò che è veramente in questione: un lutto incompiuto»[73]. Ciò che manca fino al momento del funerale di Ofelia è dunque la dimensione del lutto in quanto operazione il cui scopo fondamentale è quello di mobilitare la dimensione propriamente simbolica dell’umano, l’unica in grado di far posto alla mancanza. E cos’è che rende in maniera evidente tale funzione se non il rito funebre? Lì dove la dimensione sociale e culturale è messa in moto per fare un posto alla persona che scompare, per far sì che la vita ormai estinta non rimanga come un puro buco, assoluto e terrifico, ma divenga una mancanza indicata, additata dal simbolo. Nel rito funebre il nome del defunto si eleva dal buco della morte per iscriversi sulla lapide e fare della tomba il luogo del ricordo, il luogo dove è possibile, per chi rimane ancora un po’, mantenere un rapporto con colui che non c’è più.[74]

Con quest’ultima notazione ci avviciniamo dunque a una dimensione assolutamente cruciale del lutto che la psicoanalisi a partire da Freud non smette di ricordarci. Oltre a una dimensione propriamente culturale, sociale, messa in evidenza dal versante rituale, quella del lutto indica anche una precisa dimensione psichica, soggettiva, che Lacan riprende per metterla in rapporto con il gesto finale di Amleto. Considerare il lutto nella sua dimensione simbolica è ciò che permette di pensarlo in rapporto ad entrambe le dimensioni, sociale e soggettiva, dal momento che il simbolo è ciò che attraversa e struttura entrambe.

Riprendiamo allora le fila del discorso e ricordiamoci di avevr lasciato Amleto alle prese con la madre e più precisamente con la sua posizione di schiavitù rispetto al volere materno. Detto ancora in altro modo, avevamo lasciato Amleto alle prese con il suo compito di riportare alla ragione il desiderio della madre la cui voracità aveva infranto l’ordine simbolico e i suoi riti. Non soltanto il rito funebre è saltato, ma è saltato anche la separazione tra un rito e l’altro, il tempo che serve per separare un funerale da un matrimonio: «è stato per economia Orazio! L’arrosto del funerale fu servito freddo al banchetto delle nozze»[75]. Un disordine che Amleto deve riportare all’ordine. Il mondo fuori squadra di Amleto non è soltanto il mondo turbato dal crimine e dal tradimento che da sempre nutre la lotta per il potere. Se il tempo che serve per pensare il suo atto si allunga inaspettatamente per ritrovarsi sprofondato nel dubbio, nell’impossibilità, è perchè qualcos’altro ancora si è introdotto, incrinando in maniera irreparabile l’asse che reggeva l’ordine. La voce che sorge dalle ceneri del padre morto, ucciso e tradito, grida vendetta. Ma la morte lo ha raggiunto, per mano del fratello, falciandolo nel fiore dei peccati. Il padre è morto nel peccato, «impreparato, senza comunione e unzione e assistenza, con tutto il peso delle colpe sul mio capo».[76] La sua stessa morte è fuori squadra e pesa sul capo di Amleto. L’ordine sociale intero, il suo stesso fondamento, la sua stessa garanzia sono fuori squadra, ogni riferimento è fuori misura. Insomma, l’ideale incarnato dal padre e dalle virtù del re illuminato, è definitivamente sporcato, incrinato per sempre. Appena dopo l’incontro con lo spettro del padre, Amleto considera l’apparizione un «onesto fantasma»[77] ma appena dopo, durante il dialogo in cui chiede a Orazio e Marcello di giurare, l’intromissione della voce del fantasma che incalza sul giuramento, è accolta da un cambio di tono inaspettato di Amleto scandito da una domanda: «Hic et ubique?».[78] Si insinua il dubbio che allungherà la sua ombra sull’intera tragedia, fino alla play scene che suona proprio come un’invocazione alla verifica, alla comprensione, al calcolo come garanzia – «Al lavoro cervello mio».[79] Insomma con il fantasma è il padre, il suo ricordo, l’ideale che rappresentava a divenire oggetto di sospetto e diffidenza, ad essere avvolto nel dubbio. Come fare allora? È questo il conflitto in cui Amleto è immancabilmente preso, inaugurando l’entrata in scena dell’eroe tragico moderno. In nome di cosa, in nome di quale ideale posso agire? È la domanda che da Amleto giunge fino a noi e che rimane ancora irrisolta nonostante tutti i tentativi sempre più aggiornati che ci promettono un saper fare a poco prezzo e con la minor fatica possibile.[80]

Amleto mostra qui tutta la sua modernità: per lui come per il soggetto moderno si tratta di conforntarsi con l’assenza di una garanzia, con il vuoto lasciato dall’ideale. Un vuoto dove però vediamo giungere, come a volerlo velare e ricoprire, il tentativo disperato di un calcolo. Al posto dell’ideale incrinato che guiderebbe la condotta, giunge l’idea del calcolo, del sapere strategico, della tecnica. La credenza nell’idea di un calcolo possibile dell’atto, in tutte le sue conseguenze; credenza che neanche il fallimento, l’angoscia che sorge dal suo infinitizzarsi riesce a fermare, dal momento che ci si può sempre addossare la colpa, metterla in carico alla propria insufficienza a svolgere il compito. Una credenza, una supposizione radicata nell’intimo del soggetto e che Lacan stesso non esiterà a mettere in stretto rapporto con la costituzione dell’inconscio. La procrastinazione, il rinvio mostrano a livello della condotta, a livello fenomenico, proprio il rimanere appesi, in attesa del momento in cui il calcolo definitivo potrà essere raggiunto. Cosicché la presa d’atto che occorre ad Amleto per compiere il suo gesto non può che essere quella di una mancanza ineliminabile, dell’ordine di un impossibile, ma che – vale la pena precisarlo ancora –  non riguarda lui stesso. Di fronte al fallimento, all’impossibilità di venire a capo della risposta ultima, si può sempre pensare che è il proprio limite in questione, la propria inadeguatezza o incapacità, ci si può addossare la colpa, imprecare contro se stessi, ma questo – come mostra l’idea della play scene – non tocca la credenza che da un’altra parte ci sia qualcosa o qualcuno, un Altro in quanto istanza simbolica, luogo di un sapere sulla verità, che prende figure e forme differenti a seconda dei casi, in grado di dare la risposta ultima.

Ecco l’asse centrale intorno a cui ruota il montaggio tra il testo shakespeariano e l’indagine freudiana: se il gesto finale potrà compiersi solo dopo la morte e il funerale di Ofelia è perché introducono e danno posto alla mancanza di un sapere sulla vita stessa, su ogni possibilità di padroneggiarla. Una mancanza che solamente adesso Amleto può assumere su di sè, svincolandosi da ogni calcolo e dalla ricerca di una garanzia ultima riguardo a ciò che deve compiere. Le parole rivolte all’amico Orazio che gli chiede di rimandare il duello che gli darà la morte, rendono esattamente il rapporto tra questa mancanza nel sapere che improvvisamente gli è davanti – lui studente di Wittemberg – e il precipitarsi nell’atto: «Ciò che conta è di essere pronti. Già che nessuno sa ciò che lascia, che importa lasciare prima del tempo? Meglio non parlarne».[81]

L’uccisione di Claudio che realizzerà in extremis non sarà pertanto il “classico” gesto di vendetta, lineare, diretto, compiuto alla luce di un ideale saldo e condiviso. Non sarà più neanche la vendetta comandata dal padre, bensì un gesto dalla traiettoria obliqua, compiuto nell’incalcolabile, carico di un enigma insondabile che ancora ci fa scrivere, parlare, discutere, andare a teatro, sempre nel tentativo di carpirne il segreto.

 

NOTE

[1] Valery Paul, Tel quel

[2] Atto I, sc. I.

[3] L’identificazione non ha a che fare, come si tende a ritenere, solo con l’identutà, l’identico, il simile e il somigliante. Più precisamente, non riguarda solo il fatto di riconoscersi come io attraverso la condivisione della qualità di “essere simile” ad un altro (vedi Miller J. A., “Gli oggetti a nell’esperienza analitica”, Appunti, 111, 2007). C’è una forma di identificazione che riguarda non il piano speculare, immaginario, ma riguarda qualcosa di misterioso, enigmatico in cui coscientemente non ci riconosciamo, appunto! Possiamo parlare allora di tre tipi di identificazione: a) immaginaria, speculare, identitaria, b) all’ideale, a quello che non sono ma che vorrei essere, c) alla posizione soggettiva di eccezione, cioè di libertà dell’atto.

[4]  Introduzione al Macbeth p.VII.

[5]  Atto I, sc. 1.

[6] In Opere, VIII, p. 108.

[7] Ma cosa fa sì che il soggetto prenda una strada invece che un’altra. In ultima istanza dobbiamo appellarci, come ha fatto Lacan, a una sorta di “insondabile decisione dell’essere”.

[8] Freud S., Opere, vol. VIII, p. 633.

[9] Miller J.A., “L’esperienza del reale nella cura analitica”, La Psicoanalisi n. 29, Astrolabio, Roma 2001, pp. 164-165.

[10] Freud S., Opere, vol. VIII, p. 633.

[11] La contemporaneità va verso la messa in atto di queste varianti di riparazione fantasmatica. Si pensi alla condizione di chi soffre della umiliazione della propria identità personale ed etnica, sentendosi in diritto di essere risarcito, a volte anche con posizioni di eccezione (criminalità), fino alla negazione dei diritti dell’altro.

[12] Atto IV, sc. 3.

[13] Atto IV , sc. 2.

[14] Atto IV, sc. 2.

[15] L’affetto nei suoi rapporti con la verità. Già Freud nella nota su Edipo e Amleto non si ferma  sull’affetto, ma da rilancia l’indagine per puntare al concetto di desiderio.

[16] J.-A. Miller, Gli affetti nell’esperienza analitica, in «La Psicoanalisi», n. 8, 1990, p. 139.

[17] Ivi, p. 145.

[18] J. Lacan, Amleto, tratto da Il seminario VI. Il desiderio e la sua interpretazione, ivi, p. 19.

[19] Sul versante della elaborazione teorica, riguardo al rapporto tra affetto e verità, si vedano innanzitutto gli studi che danno origine alla nascita della psicoanalisi (per esempio Studi sull’steria, Le neuropsicosi da difesa, Nuove osservazioni sulle neuropsicosi da difesa) lì dove si soffermano sui meccanismi nevrotici della conversione e del “falso nesso”. Freud esporrà in maniera formalizzata le sue tesi nei due saggi della Metapsicologia, La rimozione e L’inconscio. Qui, le argomentazioni ruotano intorno alla messa in discussione della legittimità dell’uso del termine inconscio per l’affetto, a partire dalla considerazione che la sua natura – il fatto che esso sia avvertito e quindi noto alla coscienza – si pone in contrasto con l’appartenenza a tale sistema. Il nocciolo del ragionamento è dato dall’idea che la rimozione non riguarda di per sé l’affetto bensì la rappresentazione; ed è in conseguenza della rimozione della rappresentazione che l’impulso prima legato ad essa si congiungerà ad un’altra rappresentazione, manifestandosi «come un affetto con una coloritura qualsivoglia di tipo qualitativo» (S. Freud, Metapsicologia Opere vol. 8, Boringhieri, Torino, p. 43).

La qualità dell’affetto e quindi il suo versante di vissuto, di significato soggettivo, per Freud non è dato di per sé, ma è determinato dal legarsi dell’impulso – di cui considera tutto il coinvogimento e la risposta del corpo – alla rappresentazione. Legame che per effetto della rimozione della rappresentazione originaria può essere sciolto per ricostituirsi con altre. L’affetto dunque, come ribadirà Lacan, è fuori posto, «l’affetto è spostato» (Radiofonia. Televisione, Torino, Einuadi, 1982, p. 82, ed. orig. Radiophonie. Télévision, Paris, Seuil, 1974).

[20] Miller J.-A., Gli affetti nell’esperienza analitica, ivi, p. 140.

[21] Shakespeare W., Amleto, atto II, sc. 2.

[22] Lacan J., Amleto, ivi, p. 50.

[23] Shakespeare W., Amleto, atto III, sc. 4, p. 187.

[24] Ibidem, p. 189.

[25] Ibidem, p. 193.

[26] Ibidem, p. 195

[27] J. Lacan, Amleto, ivi, p. 51.

[28] J. Lacan, Amleto, ivi, p. 53.

[29] Atto IV, sc.2.

[30] Come indica Miller, c’è antinomia tra pensiero e atto. È in questa antinomia che può darsi l’atto, come terza scansione di un unico tempo logico. In Riccardo c’è più una posizione di pensiero ridotto a calcolo strategico, dato nel monologo iniziale, dove dà le ragioni della sua azione: come un paradigma che da lì non è messo in questione. Questo può indicare un certo pensiero svincolato dal dubbio, ma non dopo esserci passato come Amleto.

[31] Serpieri A., Retorica e immaginario, Pratiche Editrice, Prma, 1986, p. 124.

[32]  Atto I, sc. 2.

[33] Ibidem.

[34] Cfr. Atto IV, sc. 4.

[35] Atto I, sc. 2.

[36]Ibidem.

[37] La stessa apparizione del fantasma paterno con il suo racconto degli eventi della sua uccisione segna il tempo del passato.

[38] Amleto, Atto I,  sc. 2.

[39] Amleto, Atto I, sc. 5.

[40] S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Opere vol. 3, Torino, Boringhieri, p. 246.

[41] Ibidem.

[42] S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Op. cit., p. 246.

[43] Ibidem.

[44] Ibidem.

[45] Cfr. J.-A. Miller, “Osservazioni sul concetto di passaggio all’atto”, I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001.

[46] S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Op. cit., p. 246

[47] Macbeth, Atto I, sc. 7.

[48] Macbeth, Atto I, sc. 7.

[49] Atto I, sc. 3.

[50] Atto I, sc. 3.

[51] Atto I, sc. 4.

[52] Cfr. Atto I, sc. 5.

[53] Atto I, sc. 5.

[54] Macbeth, Atto I, sc. 5.

[55] Macbeth, Atto I, sc. 5.

[56] Cfr. Atto I, sc. 7, in  particolare vv. 16-18; 25-28; 31-35.

[57] Freud, Opere, vol. VIII, p. 642.

[58] Oscurità in grado di avvolgere allo stesso tempo le  vicende che non riguardano soltanto i singoli personaggi ma un’intera epoca, livida e torbida.

[59]  Atto I, sc. 5, vv. 49-51; vedi anche Atto I, sc. 4, v. 51.

[60] Il chiasma è una procedura retorica che consiste nella disposizione “incrociata” degli elementi costitutivi di due proposizioni: A-B X B-A. Ad esempio: Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori. Il rapporto fra i primi due termini (le donne: A, i cavalier: B) è ripreso e rovesciato negli altri due (l’arme: B, gli amori: A).

[61] Freud, Opere, vol. VIII, p. 643.

[62] Riccardo III, Atto  I, sc.1.

[63]  Atto I, sc. 3.

[64] Atto V, sc. 3.

[65] Ibidem.

[66] Ibidem.

[67] Atto V, sc. 3.

[68] Ibidem.

[69]Freud indica il rapporto tra cavallo e cavaliere come tra inconscio e Io, in cui il cavallo imbizzarrito disarciona l’Io.

[70] W. Shakespeare, Amleto, Op. cit, Atto V.1, 265-267.

[71] Ibidem, Atto V.1, 253-254.

[72] Ibidem, Atto V.2, 74.

[73] J. Lacan, Amleto, Op. cit., p. 99.

[74] Ed è anche un modo per proteggere i vivi dal ritorno dei morti.

[75] W. Shakespeare, Amleto, Op. cit., Atto I.2, 17-18.

[76] Ibidem, Atto I.5, 76-79.

[77] Ibidem, Atto I.5, 138.

[78] Ibidem, Atto I.5, 156.

[79] Ibidem, Atto II.2, 597.

[80]Sulla questiuone del rapporto tra l’atto e la sua mira (ideale) come cifra del tragico, cfr. il commento di Starobinski sulla follia di Aiace.

[81] Ibidem, Atto V, sc. 2.

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