L’inconscio musicale – I. Un discorso senza parole

L’inconscio musicale   I.  Un discorso senza parole

Michele Cavallo

  1. Ciò che non si può udire

Nel titolo, “inconscio musicale” non allude a quanto c’è di inconscio nella musica, piuttosto si riferisce alla possibilità di pensare l’inconscio a partire dal discorso musicale.

È stato Freud a darci una teoria dell’inconscio e su questa a fondare la psicoanalisi. L’inconscio di Freud non è quello che la filosofia aveva già messo a fuoco. Non è neppure quello degli artisti romantici. La parola “inconscio” era già in uso, infatti, tra i romantici tedeschi, come sinonimo di interiorità, spirito del mondo, sentimento, oscurità, inquietudine, follia, irrazionalità, rapimento, sogno. Significati accordati su una stessa tonalità tesa a trovare il punto di risonanza tra l’uomo e la natura abissale. Una volta liberati dall’idea illuministica del dominio della ragione che non era stata in grado di cogliere la totalità del mondo, era possibile ora esplorare le profondità dell’animo e afferrare l’inesauribile desiderio che lo muove. Sehnsucht, traducibile dal tedesco con “desiderio struggente”, dà l’idea di quanto sperimenta l’uomo nei confronti dell’assoluto: un senso di continua tensione e inquietudine, un sentimento che lo affligge e lo spinge ad oltrepassare i limiti della realtà ordinaria, opprimente e soffocante, per rifugiarsi nell’interiorità o per lanciarsi oltre i confini spazio-temporali e approdare al sentimento del sublime, a una vertigine che lo lascia attonito nei confronti dell’assoluto inducendogli un godimento partecipe dell’immensità e un correlativo turbamento.

Freud riprenderà suggestioni e temi dai letterati romantici per elaborare la sua teoria dell’inconscio. Da E. T. A. Hoffmann prenderà i temi del doppio e del perturbante.[1] Da Heine prenderà ispirazione per il motto di spirito, gli atti mancati, il sogno; da Jean Paul il motto, l’arguzia e le associazioni; da Goethe e da Byron il tema dell’abisso della conoscenza. Solo per citarne alcuni. Ma il risultato del lavoro di Freud sarà una cosa nuova rispetto ai riferimenti che usa.

Ma l’inconscio freudiano[2] non ha molto a che fare con le concezioni filosofiche o letterarie che lo hanno preceduto. Non è l’inconscio romantico della creazione immaginaria, delle divinità notturne o il non saputo, il non cosciente, il latente, il nascosto.[3] Non è un contenitore pieno di cose dimenticate, sede di istinti e di forze oscure. Non è pensato da Freud a partire dai suoi contenuti ma dalle sue “qualità formali” e dal suo modo di funzionare, dalle sue formazioni. Ecco allora che la realtà dell’inconscio si manifesta non solo nelle cose da decifrare ma anche in quelle che resistono a ogni decifrazione (l’ombelico del sogno indica il nucleo irriducibile a ogni interpretazione); si manifesta non tanto nelle cose apprese e nel ricordo ma nelle dimenticanze e nella indistinta nostalgia di cose mai esistite, non nelle azioni pianificate ma negli inciampi e nello scacco dell’intenzione, nella coazione a ripetere, nelle cose che non si riescono a pensare e a dire, nelle cose mancanti, che non ci sono e non ci sono mai state. È una realtà fatta di inibizioni e di costanti spinte che non possono trovare una piena soddisfazione. L’inconscio indica un posto vuoto, uno iato che non può essere rappresentato perché non è un contenuto né una funzione localizzabile nel cervello, esso si rivela nel linguaggio non per quello che si dice ma per quello che non è detto; si presenta al soggetto arrivando da un luogo estraneo seppur intimo: il lapsus, l’atto mancato, il sogno, il Witz, la pulsione, il sintomo, affiorano e indicano che qualcosa di altro, di non presente è operante. È un’altra scena, un’altra logica con un suo proprio rigoroso funzionamento.

A partire da Freud, soprattutto il Freud riletto da Jacques Lacan, è possibile ripensare l’inconscio secondo una logica che ci conduce a interrogare il linguaggio musicale e a prendere a prestito proprio da un musicista romantico come Schumann suggestioni in grado di illuminare questa nuova logica.

Stranamente Freud, grande conoscitore della letteratura, della pittura, della scultura e delle arti in genere, non si è mai interessato di musica. Nonostante fosse contemporaneo di Mahler e della scuola di Vienna, si dichiarava incapace di capire la musica. Più volte lo ha ribadito. Nella premessa al Mosè di Michelangelo, scrive:

Il contenuto di un’opera d’arte esercita su di me un’attrazione più forte che non le sue qualità formali, alle quali invece l’artista attribuisce un valore primario. Per molte manifestazioni e per più di un effetto che l’arte produce mi manca l’esatta comprensione […]. L’intento è di capirle a modo mio, cioè di rendermi conto per qual via producano i loro effetti. Nel caso in cui ciò non mi riesce, come per esempio per la musica, sono quasi incapace di godimento.[4]

È importante sottolineare come Freud, proprio lui che per alcuni aspetti ha anticipato le ricerche della linguistica, paradossalmente fosse attratto nell’opera d’arte dai contenuti e non attribuisse valore alle qualità formali, cosa invece fondamentale per l’artista. Questa attenzione ai contenuti condizionerà lo sguardo della psicoanalisi in genere al punto da escludere la musica dal suo campo di interessi, essendo la musica la «più sintattica di tutte le arti» e la meno semantica. In effetti nella psicoanalisi ci sono pochissimi studi dedicati alla musica. Appunto, niente in Freud, quasi niente in Lacan. Di quest’ultimo si trova un riferimento esplicito nel Seminario XVI dove indica la musica e l’architettura come arti supreme.[5] Negli altri psicoanalisti per la maggior parte i riferimenti sono alla narrazione musicale o alla vita dei musicisti.[6] Ma nessun accenno, per esempio, sulla musica come linguaggio, come oggetto in grado di suscitare domande specifiche, del tipo: cosa è una quinta diminuita per la psicanalisi? Cos’è uno staccato? Un contrappunto? Una determinata progressione armonica? La ripetizione, il ritmo? A cosa può corrispondere l’elisione del sistema tonale? Dobbiamo accontentarci della definizione di ineffabile e di asemanticità della musica?[7] Insomma, sembra non ci sia stato un contributo della psicoanalisi alla musica; e dall’opposta prospettiva non è mai emersa in maniera chiara la domanda: può la musica suggerire nuove strade per ripensare alcune questioni della psicoanalisi?

In realtà ci sono state poche e isolate eccezioni, psicoanalisti che hanno lasciato qualche sassolino sulla via da percorrere.

  1. Musica e psicoanalisi

Uno dei primi ad affrontare il rapporto tra musica e psicoanalisi è Theodor Reik, stretto collaboratore di Freud, che istituisce il legame tra “ascolto musicale” e “ascolto psicoanalitico”. Riferendosi alla seduta analitica, Reik introduce l’idea di un ascolto del “terzo orecchio”.[8] Si tratta di un ascolto orientato non tanto al contenuto e ai significati, ma alle forme espressive o paralinguistiche, al modo in cui il paziente racconta: al ritmo, ai silenzi, alla prosodia, alle pause, al tono, insomma a tutti gli indici “musicali” del suo discorso. Questo particolare ascolto permette all’analista di rilevare gli “infrasuoni del processo inconscio”, permette di cogliere materiale infinitamente più ampio di quello che fornisce la percezione cosciente. Permette, secondo Reik, di ascoltare l’essenza musicale dell’inconscio del soggetto. Seppur fondata su una semplice analogia con la musica, questa idea ha aperto una serie di sviluppi interessanti.

D’altra ispirazione è un filone della psicoanalisi che, a partire dall’impostazione linguistica e strutturale data da Jacques Lacan, ha pensato la musica non a partire dagli effetti che ha sugli affetti, né a partire dai contenuti e dai significati, né dalle storie che le opere musicali narrano, né dalla biografia dei musicisti, ma a partire dalle “qualità formali” della musica, dall’analisi strutturale capace di dire qualcosa sul modo in cui si struttura l’inconscio, su come pensare l’ascolto dell’altro nella clinica, su come approfondire la logica del discorso e del significante, che è costitutiva del soggetto stesso.

In ogni caso non si tratta di una psicoanalisi applicata all’arte, che vuole spiegare la musica o dire cos’è la produzione o la fruizione musicale, ma della ricerca di una logica comune alla strutturazione del discorso al di qua, o al di là, del significato. In questa prospettiva non si studiano gli affetti evocati dall’ascolto e neppure il preverbale a cui la musica rimanderebbe, ma la logica costitutiva della struttura significante (verbale e non verbale) nel senso ridefinito da Lacan. Il concetto meccanicistico di “struttura” che lo strutturalismo linguistico aveva promosso isolando il prodotto dal processo, trascurando la causa, respingendo la temporalità e la soggettività, è fortemente criticato da Lacan, il quale invece include la soggettività e la temporalità nell’analisi strutturale, propone una teoria del soggetto fondata sulla logica e l’articolazione della catena significante, che informano la costituzione del pensiero, degli affetti e del corpo stesso. Musica e psicoanalisi possono incontrarsi in questo nuovo campo in cui struttura-tempo-soggetto sono annodati. L’attenzione agli aspetti formali del linguaggio musicale, la non esclusione del tempo e del soggetto dall’analisi strutturale, la processualità e l’articolazione, saranno i punti di forza di questo campo di studi.

A partire dall’elezione dell’aspetto formale rispetto al contenuto, l’interesse di alcuni psicoanalisti si è orientato sulla materialità sonora, dove l’elemento comune con la musica è rintracciabile già nel fonema, nella vocalità, nei suoni corporei. L’idea è però che la fonte reale, il corporeo, la mimesi sonora siano appunto solo un punto di partenza, che non riduce la musica al suono. Poiché, come la semiologia musicale ha ormai chiarito, è opportuno ricondurre la percezione del suono stesso alla logica del significante, oltre alla “materialità”, oltre alle caratteristiche timbriche-sonore, c’è una articolazione sintattica e grammaticale, caratterizzata dai rapporti tra i ritmi, l’altezza tonale, l’armonia ecc. Questo riporta in campo non solo la sintassi e la processualità ma anche il discorso (dato da contesto e co-testo) e il ruolo del soggetto. La voce stessa, secondo la prospettiva di Lacan, non va intesa come pura materialità — riconducibile alla “grana della voce”, nel senso in cui ne parla Barthes[9] — proprio perché la sua stessa grana è una funzione della catena significante. La voce è sempre parte di un contesto locutorio: lamentarsi, invocare, intimidire, pregare, parlare, interloquire, cantare, urlare; è in funzione del contesto di emissione che la udiamo e la intendiamo. Come ogni oggetto sonoro grezzo, anche la voce deve essere ricondotta al “sistema simbolico” in cui è emessa e fruita, al di fuori del quale le caratteristiche timbriche e sonore in genere non hanno valore specifico. Enunciato e enunciazione sono indissolubili.

Riprendendo un testo di Theodor Reik,[10] Lacan analizza la funzione del suono dello shofar, il corno ebraico utilizzato tutt’ora in particolari occasioni religiose.[11] Generalmente è un corno d’ariete che in un’atmosfera di raccoglimento, di fede o di pentimento produce suoni dal carattere profondamente commovente. Dello shofar si parla nella Bibbia, viene menzionato per la prima volta nel dialogo tra Dio e Mosè,[12] in cui si dice che il popolo potrà salire sul Sinai solo quando avrà udito la voce dello shofar. Nei diversi casi appare evidente che lo shofar ha la funzione di dare voce a Yahweh, è la voce di Dio stesso.[13] Ma non è l’unico esempio di “strumento” che assolve tale funzione, non è necessario neppure che sia uno strumento a fiato. Nella tradizione abissina è il tamburo, in alcune tribù australiane il bullroarer, strumento simile a una trottola che produce una specie di brontolìo che somiglia al muggito di un bue (il testo biblico chiama lo shofar anche muggito di Dio, il muggito del toro ucciso).[14]

Ma quando ascoltiamo il suono dello shofar – si chiede Lacan – è proprio di musica e di suono che si tratta in quel salto di quinta che gli è proprio? Non è piuttosto un sostituto della parola? Il suono dello shofar è la voce imperativa, che reclama obbedienza: «Essa non si individua rispetto alla musica ma rispetto alla parola».[15] È un suono in grado di dare forma – nota ancora Lacan – alla nostra angoscia di colpevoli o di penitenti, ma solo dopo che lo udiamo come voce dell’Altro che ha assunto la forma di comandamento. E per questo può svolgere la sua funzione “musicale”, dando all’angoscia la sua risoluzione: colpa o perdono.[16]

Un altro esempio di come la psicoanalisi, in questo senso, cerca di leggere il fenomeno musicale per dar conto dell’annodamento tra struttura-tempo-soggetto, è quello di Alain Didier-Weill.[17] Attraverso il fenomeno della ripetizione egli mostra un meccanismo che dà posto al soggetto nella struttura del linguaggio musicale. Prima di tutto, ci sono due qualità della ripetizione che possono emergere solo a partire dalla diversa posizione che diamo al soggetto. La ripetizione può essere automaton e avere come effetto di fermare il divenire temporale e la concatenazione, mera compulsione che priva il soggetto della dinamica del presente e lo consegna a una fissità senza senso e senza tempo, a una ottusa coazione a ripetere; oppure può essere tyche, ripetizione come ricerca che mette il soggetto in una disposizione di attesa di qualcosa che la linea diacronica annuncia.[18] Per questo secondo caso Didier-Weill suggerisce di pensare all’innesco del piacere da parte di una nota o di una frase musicale e al suo alloggiarsi in noi ossessivamente, sempre la stessa ma mai monotona (è il caso, ad esempio, della melodia ossessiva di cui parlava Reik).

Una nota ripetuta può avere un effetto sia retroattivo, influenzando la percezione delle note che l’hanno preceduta (effetto di aprés-coup), sia soprattutto un effetto di attesa e anticipazione delle note che seguiranno e del “senso” che assumeranno (effetto di avant-coup). Al fondo del piacere dell’ascolto ci sarebbe allora sempre una sorta di «godimento nostalgico della promessa», secondo Didier-Weill.[19] Ecco perché nella ripetizione è il godimento del soggetto che dà un valore nuovo alla nota, che in sé è sempre la stessa. Ogni piccola variazione può creare effetti di sorpresa che rinnovano la percezione; ma l’effetto non è eterno, può perdere il suo potere evocativo e allora ecco che la stessa nota non dà più godimento (né retroazione e nostalgia, né anticipazione e promessa) e diventa vuota ripetizione, automaton. C’è una usura del significante che può essere colta solo a partire dall’effetto di godimento sul soggetto. Pensiamo a quanto può essere logorante l’ascolto o anche l’esecuzione di uno stesso pezzo, ripetuto centinaia di volte. Si tratterà di saper rinnovare la nostalgia e la promessa che un brano e una singola nota possono suscitare.

Riprendiamo il filo che stiamo seguendo: così come il suono dello shofar parla in quanto voce di Dio, comandamento; anche la mera ripetizione di una nota può parlare, promettere. Un ultimo esempio, tratto da uno studio psicoanalitico sulla melodia, servirà a farci fare un ulteriore passo. Proviamo a prendere un caso molto particolare di melodia, quello della scala musicale. Se ascoltiamo una scala, la percepiamo come una melodia. Ma nel caso in cui, per esempio, all’interno di un brano in tonalità di Sol maggiore dimentichiamo di eseguire l’alterazione in chiave, percepiamo una stonatura, qualcosa di anomalo all’interno della melodia. Claude Dargeuille ne deduce che «la scala musicale è una struttura che condiziona la nostra percezione anche se noi non percepiamo direttamente la scala: è una struttura di riferimento, rappresenta il codice attraverso il quale io ascolto e decodifico la melodia».[20]

La melodia è udita in quanto riconosco un ordine, una struttura, un codice. Non solo, l’articolazione dei suoni in cui la melodia consiste, fa sì che io la ascolti come fosse un discorso, uno svolgimento di elementi organizzati che mi chiama in causa, in un certo senso è come se fosse un discorso rivolto a me.[21] Là dove riconosciamo un ordine supponiamo anche l’intenzione di un artefice, cioè un Altro (quale esso sia: Dio, il compositore, una civiltà extraterrestre). L’ordine, la struttura, la percezione di un’organizzazione è prioritaria rispetto a qualsiasi significato e a qualsiasi identità. Qualcosa mi parla, anche se non so chi e cosa dice. Anche se assumiamo che i significanti sonori non hanno un significato, hanno però un ordine, si concatenano secondo una certa articolazione e fanno trasparire un’intenzione o quantomeno la presenza di un Altro.[22] Lasciano apparire relazioni complesse paragonabili ai nessi sintattici e grammaticali di una lingua (seppur priva di lessico) pronta a evocare molteplici sensi. I suoni, quindi, in quanto significanti organizzati, comunicano la possibilità di un discorso.

Claude Dargeuille si è chiesto, allora, se l’ordine degli elementi nel discorso musicale può essere uno qualsiasi. È possibile sostituire, ad esempio, all’ordine dell’altezza tonale un altro principio di organizzazione? Evidentemente chiamiamo “discorso musicale” proprio questa organizzazione delle altezze, all’interno del sistema tonale, riconducibile allo spostamento in su e in giù sulla scala. L’ascolto non è riducibile alla decodifica dei parametri di una fisica del suono, ma deve essere ricondotto alla percezione qualitativa di una sorta di movimento tra elementi che formano una sequenza anche minima (di almeno due elementi).[23] Movimento che possiamo considerare la “formula del pathos musicale”[24] e che Dargeuille propone di chiamare melodema.

La percezione di spostamenti fa sì che una struttura sia avvertita come un discorso che si svolge nel tempo, emesso da qualcuno e indirizzato a un ascoltatore. È la percezione di movimento a rendere possibile il riconoscimento, ce ne accorgiamo quando incontriamo musiche totalmente estranee, in cui non è facile cogliere l’organizzazione delle altezze (non si instaura una percezione del movimento di salita e discesa sulla scala, niente discorso, niente senso). Infatti, il senso è effetto del discorso, di uno svolgimento concatenato, di un percorso, di un circuito. Il melodema evoca un senso, poco importa che questo senso sia connotato semplicemente dal movimento e dalla concatenazione, e che non abbia a che fare con un chi e un che cosa definiti. Anzi, l’attribuzione di un senso, proprio perché spogliata da un referente e da un significato evidenti, è una operazione che l’ascolto musicale fa emergere in modo del tutto peculiare, attraverso la percezione di un ordine, una dinamica temporale e l’implicazione del fruitore che “si muove” seguendo l’andamento sulla scala (o su altri parametri).[25] L’esperienza cinetica del corpo dell’ascoltatore è il riferimento essenziale della concatenazione e che nei termini lacaniani costituisce la jouis-sens.

Per Dargeuille il melodema produce un effetto di implicazione che il seguente fenomeno illustra: lo stesso intervallo assume caratteri variabili secondo il posto che occupa in una sequenza, realizzando il paradosso di essere contemporaneamente lo stesso e tuttavia non identico per il soggetto. Inoltre la posizione di un elemento ha un effetto retroattivo sulla “percezione-comprensione” degli elementi che lo precedono (aprés-coup). In tal modo si spiega l’infinita diversità di cui si mostrano capaci la maggior parte dei sistemi musicali, malgrado il numero ristretto delle unità elementari costituenti. Dargeuille chiama significazione melodica questo effetto del melodema, che permette di connotare la frase di un testo musicale e più generalmente una sua “interpretazione”. Nel melodema possiamo individuare il primo livello di segmentazione del continuum fonico-sonoro, cosa che impedisce di ridurre il melodema all’oggetto sonoro grezzo e mostra l’inclusione del soggetto nella struttura, un soggetto che preso nel discorso: “ascolta”, “si muove”, “attribuisce senso”, “gode”.

  1. Lingue musicali

Già gli studi inaugurali di semantica musicale[26] ci insegnavano che la percezione musicale, come la percezione di una lingua, avviene solo se l’ascoltatore “riconosce” (sia pure pragmaticamente) una organizzazione, un ordine, delle regole grammaticali e sintattiche e se conosce un certo numero di “parole” (dizionario, lessico), il che vuol dire che è in grado di associare a certi suoni-parole delle posizioni, o degli oggetti, o delle immagini, o degli stati d’animo o dei significati. Questo vuol dire che l’acculturazione, l’educazione, le competenze sono essenziali per connotare una frase musicale e più generalmente per interpretarla, essenziali per percepire sia i singoli suoni che il melodema come parte di un discorso. Li percepiamo a partire da un determinato “punto di vista” che qui dovremmo chiamare “punto di ascolto”. L’ascolto musicale dipende dallo stato emotivo e attentivo, dalle competenze e dalle decisioni, dalle coordinate inconsce del soggetto, dal “punto di ascolto” sia soggettivo che culturale.[27] Ad esempio, l’ascolto dello shofar dipende in maniera evidente da questi diversi livelli. Non si può prescindere dal considerare il modo particolare in cui si è strutturata, in un determinato soggetto che fa parte di una determinata cultura, la dimensione della promessa, dell’attesa, della fiducia nell’Altro: sarà diversa in ognuno ma sarà diversa se ebreo, se credente o no, se di questo secolo o di due secoli fa. L’effetto su di lui di quel suono dipenderà da tutto ciò. In tal senso, non c’è modo di universalizzare, neppure gli studi di fisica del suono o di psicologia della musica possono dirci in che modo Kreisleriana è ascoltata da un soggetto. Lo strutturalismo psicoanalitico cerca di rendere conto della possibilità di articolare il singolare, il particolare e il generale. Cerca di articolare i vari livelli di analisi strutturale senza perdere lo specifico della singolarità del soggetto, poiché lo studio formale degli elementi costitutivi di una struttura non basta a cogliere le specificità e le aporie del discorso concreto. Ogni discorso, infatti, appartiene a più livelli testuali che si danno sincronicamente e si danno in un dato contesto pragmatico di enunciazione e di interazione.

La linguistica moderna ha sviluppato classificazioni ulteriori rispetto all’analisi segmentale e soprasegmentale della fonologia. Anche l’analisi stilistica, in questo orizzonte di studi, non è il prodotto finale di singole analisi di pezzi isolati, è semmai il presupposto per queste analisi.[28] In questo senso, la comprensione avverrebbe anche dall’alto verso il basso, dal grande al piccolo, frutto di un riconoscimento olistico, gestaltico. Insomma, devo conoscere una lingua e a partire dalle occorrenze situazionali e pragmatiche, potrò riconoscere i suoi elementi costitutivi. Come già sottolineato, gli elementi di una sequenza non si danno mai staccati, isolati, ma sono concatenati in un “discorso”, entità transfrastica che connette i vari livelli significanti (suoni, frasi, sequenze, opera) in un insieme. Il senso è prima di tutto l’effetto dei diversi testi a cui un’opera rimanda, il cosiddetto “co-testo”, ed è effetto del “contesto situazionale” in cui si situa l’emissione. Il co-testo e il contesto situazionale selezionano alcuni sensi particolari rispetto a tutti i possibili sensi che quei significanti potrebbero avere. A seconda, quindi, di dove collochiamo il livello di analisi avremo come oggetto significante il fono, il fonema, la parola, la frase, il periodo, il discorso, il testo e i suoi co-testi, il contesto situazionale, la lingua stessa.

Non basta definire la musica come linguaggio per dar conto della sua fruizione. È necessario parlare delle diverse lingue musicali, degli specifici discorsi musicali e dei contesti in cui si danno. Per udire la musica romantica è necessario conoscerla come “lingua”, così come per udire il cinese non è sufficiente “essere nel linguaggio” ma tocca conoscere quella specifica lingua. All’interno di una lingua ci sono idiomi e discorsi specifici, specifici atti di enunciazione, fatti da qualcuno in una data situazione. La linguistica sincronica studia e descrive questo reticolo di interrelazioni sintagmatiche e paradigmatiche che legano ogni elemento al complessivo repertorio della lingua. Questo reticolo che regola ogni atto enunciativo, espressivo, è in realtà una grammatica che ha due livelli: uno implicito proprio del soggetto e uno esplicito proprio del funzionamento condiviso, standard, pubblico, scientifico e pragmatico di una lingua.

L’apporto della psicoanalisi consente di precisare proprio questa concezione non meccanicistica e non formalistica della lingua; di precisare, ad esempio, che quando parliamo di contesto e di pragmatica, di enunciazione o atto espressivo, non bisogna riferirsi solo al contesto situazionale, esterno, ambientale, ma includere anche il “contesto soggettivo” con le sue varianti sia sul piano della langue (la lingua personale che nella sua costituzione si è configurata in modo molto singolare in quel soggetto), sia sul piano della parole, dell’enunciazione (varianti di tratti espressivi idiosincrasici, varianti di stato emotivo, di intenzione, di relazione inter-locutoria). Queste varianti lessicali, semantiche, grammaticali sono implicite, private. In effetti, la linguistica definisce questo livello intrasoggettivo proprio “grammatica implicita”.

Il contesto soggettivo è, insomma, la risultante sia dello stato del soggetto, delle aspettative, della sua posizione relazionale con il locutore o con il campo enunciativo; sia della sua lingua inconscia fatta di due ordini particolari, quello della specifica catena significante e quello dei significati depositati lungo la sua vita, ordini che formano un reticolo del tutto singolare, che Lacan ha chiamato lalangue (lalingua).[29]

Per mostrare come la grammatica implicita, formata da un repertorio privato di due ordini, quello dei significati e quello dei significanti,[30] vada a costituire una lingua inconscia, e quindi il “contesto soggettivo”, è utile l’esempio del caso clinico di Freud L’uomo dei topi.[31] Questo paziente costruisce una sorta di “repertorio dei ratti”, un testo, un reticolo, un complesso sintomatico, sia attraverso associazioni di significati (ad esempio: topo=pene, poiché i topi diffondono malattie come la sifilide; topi=supplizio, dal racconto di una tortura; topi=vermi intestinali, e il conseguente erotismo anale; topi=fiorini, rinvio alla ricompensa delle prostitute; topi=bambini, come in alcune favole; topo=anima, per aver visto un topo uscir fuori dalla tomba del padre; topo=sosia, da piccolo era stato un monellaccio disgustoso e sporco che usava spesso mordere gli altri); sia attraverso associazioni fonetiche, significanti, che non hanno nulla a che fare col significato (dalla parola Ratten di diramano una serie di associazoni: Raten, rate, debito e rinvia all’equazione tra topi e denaro; Spielratte, giocatore d’azzardo, è il padre dell’uomo dei topi che ha giocato e perso dei soldi che doveva restituire; Heiraten, sposarsi, richiama la scelta che deve fare tra due donne). Ratten diviene una parola-stimolo che nell’ordine significante funziona come “parola-ponte” che rinvia ad altre parole e nell’ordine del significato come “parola-valigia” che porta con sé significati particolari.

Non si tratta quindi di far corrispondere un significato corretto al suo significante, ma si tratta della verità del soggetto, verità inconscia, poiché nella sua storia gli strani nessi S/s obbediscono a una logica. Non solo l’effetto della parola “ratto” su di lui non è da imputare al suo significato ordinario ma neppure alle caratteristiche fonico-materiali, alla durezza del suono, al timbro o al volume; l’evocazione di quella parola ha invece un impatto reale, materiale, violento perché colpisce «zone ipersensibili del suo inconscio», cioè della sua lingua privata.[32] In lui il “repertorio dei ratti” è anche un complesso sintomatico che produce turbamento e godimento, ribrezzo ma anche erotismo anale. È ovvio il perché questo specifico effetto non sia generalizzabile.

Un significante, per alcune sue caratteristiche, può produrre effetti di significato non previsti dalla lingua pubblica ma rinvenibili nella lingua privata e inconscia del soggetto. Questo vale per la musica sia per il momento della creazione, della composizione, sia per il momento dell’esecuzione, dell’interpretazione, sia per il momento dell’ascolto, della fruizione. Ogni soggetto crea, suona o ascolta la musica a partire dalla conoscenza di una lingua musicale, a partire da un discorso che si enuncia in un dato contesto storico e situazionale e a partire da un proprio contesto soggettivo, da una propria lingua musicale privata e inconscia.

  1. L’inconscio strutturato come un linguaggio musicale

In definitiva, non è il suono isolato, né la voce o le varie espressioni paralinguistiche a costituire il termine comune tra psicoanalisi e musica, ma qualcosa di simile al discorso. Nella musica vi sono frasi, affermazioni, interrogazioni, invocazioni, assoli, dialoghi – insomma tutto ciò che, al di là dell’udibile, chiama in causa la struttura del discorso e la presenza di un Altro che è già lì prima che qualsiasi suono sia emesso. Poi, ecco tutta una dinamica che nel suo svolgersi ha effetti di discorso, annuncia sensi, sembra “voler dire”, promette qualcosa che tocca ascoltare e decifrare per poter cogliere. Come ha sottolineato François Regnault: «Questo è il parla della musica. Da questo punto di vista, la musica è l’inconscio stesso».[33]

Un discorso latente diviene manifesto pur rimanendo incomprensibile dal punto di vista del significato, c’è bisogno di interpretarlo, di dirlo: ecco appunto l’inconscio. L’inconscio, come la musica, parla anche se non sappiamo a priori cosa dice: «parla e funziona in modo altrettanto elaborato che a livello del conscio».[34]

Se la psicoanalisi va pensata in funzione del discorso, ebbene per Lacan: «l’essenza della teoria psicoanalitica è un discorso senza parole».[35] E se l’inconscio è strutturato come un linguaggio,[36] è a un linguaggio senza parole che dobbiamo pensare. Più precisamente dovremmo dire “strutturato come un discorso senza parole”. Un discorso che non produce significati dati ma un “voler dire…” insieme a un “voler godere…”, Lacan propone il gioco di parole che mette insieme godimento e senso: jouis-sens (jouissance: godimento e sens: senso).

A proposito del melodema Dargeuille ha riferito il discorso a un circuito: ciò che rende possibile la percezione del discorso musicale, è un movimento, uno svolgimento concatenato di qualche tipo tra almeno due elementi. Ciò che si dà in ogni emozione, in ogni sensazione o in ogni pensiero, sarebbe un certo dinamismo, cioè il principio stesso della catena significante. E che cosa è il dinamismo se non la percezione di un movimento, di un passaggio da… a… . Passaggio che implica necessariamente due termini, due stati, due punti, due poli. Da basso ad alto, da piccolo a grande, da piano a forte, da stridente a fluente, da teso a disteso, da vicino a lontano….

Ma cos’è che mette in moto questo circuito? La psicoanalisi ha elaborato il concetto di “pulsione” per dar conto di questa spinta.[37] Lacan ha sottolineato che a livello di ogni pulsione non si tratta di scarica energetica ma di un movimento di andata e ritorno in cui essa si struttura.[38] È un processo che non si soddisfa nel trovare il suo oggetto una volta per tutte, ma nell’essere costantemente in moto, dentro un circuito. Ecco perché la struttura deve implicare sempre un soggetto; affinché sia viva e funzionante c’è bisogno di un soggetto desiderante, un soggetto che cerca il suo oggetto di soddisfazione e faccia di quella struttura il percorso in cui la pulsione scavi la sua traccia. Le regole formali di un linguaggio (musicale, visuale o verbale che sia) non bastano a farlo funzionare se non a partire dal “come promette” a un soggetto lo specifico oggetto a cui la sua pulsione anela.

È come se la pulsione avesse il compito di andare a scovare qualcosa nell’Altro, a cercare l’oggetto della soddisfazione che sente mancargli. Questo Altro verso cui l’appello si rivolge è sempre l’Altro del linguaggio (fuori dal linguaggio non c’è modo di “chiedere”). Quindi, se l’Altro è quello del campo della visione, parleremo di una pulsione scopica, se l’Altro è quello del campo uditivo, parleremo di una pulsione uditiva.

La musica può essere l’Altro, il campo del linguaggio a cui il soggetto rivolge il suo appello per cercare il suo oggetto e soddisfare la sua pulsione, la quale si troverà ingaggiata in un circuito che avrà la forma del linguaggio musicale, e di questo si soddisferà. Il circuito terrà viva la promessa che nel soggetto prende la forma di una costante nostalgia per l’oggetto perduto e mai ritrovato (secondo la formula di Freud). Potremmo in tal senso dire che la causa che muove la creazione musicale è la voce perduta: nel mito più che a Narciso è ad Eco che dobbiamo dare attenzione per capire l’arte. La musica e le arti in genere sarebbero percorsi dove la spinta pulsionale cerca di soddisfarsi nel suo stesso movimento, poiché in questa ripetizione incide un solco, scava un vuoto dove far risuonare l’eco di quell’oggetto.

Nell’accezione romantica, seguendo questa linea di pensiero, l’opera stessa diventa la traccia di un movimento, di un itinerario; l’artista cerca al di là dei confini dati e questa ricerca diventa un tragitto attraverso cui far riecheggiare l’oggetto del godimento definitivo, sublime e mai raggiunto. Una promessa, dunque. L’inconscio e la musica sarebbero discorsi che non dicono significati ma annunciano qualcosa attraverso il loro stesso sviluppo significante. L’inconscio e la musica essendo strutturati come un discorso senza parole, sarebbero quindi senza significati?

I suoni-parole che compongono una frase musicale sono degli assemblaggi, non designano qualcos’altro; gli assemblaggi però sono sufficienti a fare una catena, a creare un ordine e un discorso che ha “effetti” di significato. Cioè non c’è, in questo caso, un insieme di significati preformati che struttura e dà ordine al linguaggio. Sempre nell’accezione lacaniana, l’inconscio strutturato come un linguaggio, vuol dire che non è strutturato da un linguaggio che dall’alto imporrebbe la sua organizzazione. L’inconscio si struttura a partire da assemblaggi che formano repertori, come nella teoria degli insiemi[39] e come mostrato dall’uomo dei topi.

I significati della musica e dell’inconscio non sono dati a priori, direttamente nei suoni o nelle parole, ma prodotti dal discorso. In questo senso possiamo dire che il significato non è percepibile con le orecchie: «Il significato non è quel che si sente. Quel che si sente è il significante, il significato è l’effetto del significante»;[40] bisogna precisare però che non è prodotto in maniera automatica a partire da significanti “nudi e crudi”. I significanti per potersi annodare, per poter rinviare, oltre alle caratteristiche materiali, devono avere anche un valore per il soggetto, devono “promettere”, altrimenti non si metterebbero in catena. Avere un valore vuol dire essere già alloggiati in una lingua inconscia (lalingua) con i suoi “ponti” e le sue “valige” e con le sue “zone sensibili”.

A partire da questo radicamento, significante può essere qualsiasi cosa in grado di legarsi a un nucleo di godimento e di rimandare a un altro significante, questo rinvio produrrà effetti di significato. È questo movimento del significante che stabilisce le modalità di articolazione dell’esperienza. Anzi, possiamo dire che è il significante non legato a un significato standard preesistente, a far emergere l’autentica esperienza dell’istante, non mediata dalla memoria e dal saputo; dal dinamismo e da un vuoto di senso nascono nuove articolazioni, esperienze inedite, nuovi sensi; da un incontro contingente, sorprendente e anche traumatico può scaturire il nuovo. Da “quel che si sente” e si patisce come elementi isolati senza senso, si tratta di trovare modi di concatenazione, di produrre un “effetto di senso”, per il quale Lacan ha introdotto la nozione di «significanza».[41] Le concatenazioni dei significanti si creano attraverso diversi tipi di relazioni: rapporti di similarità metonimica (vicinanza, successione, ripetizione, tratti fonici simili – una parte per il tutto) oppure relazioni metaforiche (sovrapposizione, sostituzione, elevazione), ma anche relazioni gerarchiche (prima-dopo, sopra-sotto, principale-secondaria, figura-sfondo ecc.).

Significanze sono quei sensi che non hanno un rapporto diretto o mimetico con un referente esterno, non sono “significati”. Alla parola sedia sappiamo corrispondere l’oggetto sedia, per questo nella lingua possiamo dire che la parola “sedia” significa la cosa denotata, l’oggetto sedia. Di solito non abbiamo questa corrispondenza nel linguaggio musicale, a un suono o a una sequenza armonica non corrisponde un oggetto del mondo e neppure uno stato d’animo dato, per questo non significano nulla. Le referenze restano molto approssimative, i significanti-suoni non indicano, il significato manca.

Ma questo non vuol dire che non è possibile un effetto di senso — che appunto il termine significanza mette in rilievo — effetto dato dalla concatenazione, dal circuito. Da solo il significante non ha alcun senso, è stupido dice Lacan, si tratta di percorrere il tragitto che nell’inconscio non è dato a priori né una volta per tutte, così come nella musica. Il significante in quanto tale non si riferisce a nulla se non a un discorso, cioè a un modo di funzionamento e a un percorso specifici, è da questo modo che scaturiscono i significati e non dalle etichette più o meno “arbitrariamente” appiccicate sugli oggetti.[42]

In questo, la musica è il discorso più vicino all’inconscio, essa non celebra il significato delle cose, ne dice la dinamica. Non stabilisce significati ma evoca “significanti”. Non esprime alcunché di definito, non denota qualcos’altro che esiste là fuori o qui dentro, né sentimenti, né stati psicologici, né atteggiamenti, ma li fa e li dice nel suo stesso dinamismo. È come se il discorso musicale stabilisse un inedito rapporto con un oggetto di godimento, lo fa attraverso un nuovo ordine che permette di percorrere una via segreta che nel discorso comune rimaneva sepolta sotto i significati dati. Nel discorso musicale, una volta stabilito quel rapporto con il godimento, emerge un significato inedito. Il discorso della musica permette l’emersione del discorso latente inconscio, come se lo interpretasse. In questo risiede il potere evocativo che le è proprio, quello di rendere l’incosciente e l’inesprimibile. In tal senso la musica non “è” ineffabile ma “dice” l‘ineffabile.

Focalizzando l’attenzione sul ritmo, sia pure nel testo poetico, lo studioso Henri Meschonnic ha dato al concetto di significanza una articolazione che mi sembra estremamente risonante alla proposta che qui si propone, dell’inconscio strutturato come un discorso musicale:

Io definisco il ritmo nel linguaggio come l’organizzazione delle marche attraverso le quali i significanti, linguistici ed extralinguistici (nel caso della comunicazione orale soprattutto) producono una semantica specifica, distinta dal senso lessicale, e che io chiamo la significanza, cioè i valori propri di un discorso e di uno solo. Queste marche possono collocarsi a tutti i “livelli” del linguaggio: accentuali, prosodici, lessicali, sintattici. Esse costituiscono insieme una paradigmatica e una sintagmatica che neutralizzano precisamente la nozione di livello. Contro la riduzione corrente del “senso” al lessicale, la significanza appartiene a tutto il discorso, essa è in ogni consonante, in ogni vocale che, in quanto paradigmatica e sintagmatica, produce delle serie. Così i significanti sono tanto sintattici quanto prosodici. Il “senso” non è più nelle parole, lessicalmente. Nella sua accezione ristretta, il ritmo è l’accentuale, distinto dalla prosodia-organizzazione vocale, consonantica. Nella sua accezione larga, quella che io implico qui più spesso, il ritmo ingloba la prosodia. E, oralmente, l’intonazione. Organizzando insieme la significanza e la significazione del discorso, il ritmo è l’organizzazione stessa del senso nel discorso. E il senso essendo l’attività del soggetto dell’enunciazione, il ritmo è l’organizzazione del soggetto come discorso nel e attraverso il suo discorso.[43]

L’idea di ritmo che Meschonnic ha cercato di mettere a punto durante tutta la sua carriera di studioso tende a sottrarsi tanto al formalismo astratto quanto all’esasperazione individualistica dell’estetica idealistica. Il soggetto, per Meschonnic, si inscrive nel discorso non attraverso il significato ma attraverso significanti che mobilitano e catturano il suo godimento. Il ritmo, la ripetizione, la melodia-prosodia, l’intensità, possono essere gli attrattori che lo implicano in un discorso, in una concatenazione di eventi a cui attribuirà una logica, significati, tonalità affettive. In questo percorso, nelle sue insistenze, nelle sue tonalità si costituisce il soggetto stesso. Ecco che il ritmo non è un evento analizzabile dal punto di vista puramente formale, di volta in volta avrà effetti diversi, una presa diversa sul soggetto che vi si costituisce. Struttura, tempo, storia e soggetto si implicano.

Il discorso non è più arbitrario, gratuito, non è ornamento, né atto comunicativo o autoriflessivo, ma costituzione, interpretazione e trasformazione del soggetto inconscio. Diversamente dallo strutturalismo linguistico che cercava di definire in termini generali e astratti il linguaggio, la poetica di Meschonnic si occupa dei modi di significazione dei singoli testi concreti. La critica del ritmo non consiste nel commentare un verso o un’opera poetica, di cui direbbe il senso là dove l’opera stessa non l’avesse già fatto. Essa invece cerca “come” significhino e la “situazione” di questo come.[44] Le due parole-chiave sono il “come” e la “situazione” del come, cioè i modi di significare di un testo, in quanto essi non esistono in maniera autonoma, ma si producono attraverso una enunciazione e una ri-enunciazione che si iscrivono in una storicità.[45] La specificità dei modi di significazione deve essere determinata di volta in volta.

L’idea del ritmo e degli altri parametri musicali, come dispositivi dell’inscrizione della soggettività nel discorso è la via che qui cerco di proporre. Il come e la situazione in cui questo come arriva ad articolare la catena significante dà conto della costituzione di uno specifico soggetto, costituito da quella logica, da quell’ordine, da quel funzionamento.

 

Michele Cavallo, “L’inconscio musicale”,

saggio pubblicato negli Atti del convegno Schumann: la musica, l’ambiente culturale, il silenzio della follia, tenutosi all’Università La Sapienza di Roma il 17 nov 2010, edito da LIM, Lucca, 2014.

 

NOTE                                           

[1]  Hoffmann nelle sue opere mette in campo i temi dello sdoppiamento, della follia, della telepatia, della estraneità a sé stessi. In particolare, nei Racconti notturni, in Der Sandmann (L’uomo della sabbia), che Freud utilizza per elaborare il concetto di perturbante. Nei romanzi Gli elisir del diavolo e Considerazioni filosofiche del gatto Murr. In Kreisleriana: i dolori musicali del kappelmeister Johannes Kreisler, dove crea il personaggio di Johannes Kreisler, il musicista pazzo, che ispirerà l’omonima opera di Schumann.

[2]   Cfr. Sigmund Freud, Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, vol 3, p. 558 – vol. 9, p. 477 ss.; qui Freud chiarisce che il suo non è l’inconscio dei filosofi, non è un sistema più o meno consapevole, più o meno irrazionale, non è il latente passibile di affiorare alla coscienza, ma è il luogo di una divisione non ricomponibile. Nel vol. 6, p. 575, poi, chiarisce l’aspetto dinamico dell’inconscio, pensieri operanti da cui derivano i sintomi; nel vol 8, p. 49, infine, chiarisce che il rimosso è solo una parte dell’inconscio.

[3]   Jacques Lacan, Seminario XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2003, p. 25.

[4]   Freud, Opere cit., vol. 7 (1913) p. 299. In una lettera a Romain Rolland del 1929 si legge: «La mistica è per me qualcosa di precluso, come la musica» (Lettere alla fidanzata 1873-1939, Bollati Boringhieri, Torino p. 358). Vedi anche: Opere cit., vol. 10 p. 558 e p. 329.

[5]   Per Lacan tutta l’arte dà conto di una mancanza strutturale, di quella faglia che l’inconscio rivela. La musica e l’architettura sono arti supreme, secondo lo psicoanalista francese, nel senso tecnico di mostrare rispettivamente nel tempo e nello spazio l’incolmabilità del vuoto. Cfr. Jacques Lacan, Séminaire XVI, Seuil, Paris 2006, p. 14.

[6]   Ovviamente ci sono stati studi interessanti come quelli di Theodor Reik, Variazioni su un tema di Mahler (si tratta di un commento al testo scritto dallo stesso Mahler), e The haunting melody (osservazioni autobiografiche di Reik sul fenomeno della melodia che lo ossessiona dal momento in cui riceve la notizia della morte dell’amico Karl Abrham. Motivo che non lo abbandona, si ripete e si impone, diventando un vero Leitmotiv del lutto per l’amico scomparso). Tra gli studi più interessanti, soprattutto francesi, ricordiamo: A. Michel, Psychanalyse de la musique, PUF, Paris, 1951; D. Anzieu, L’enveloppe sonore du soi, in «Nouvelle Revue de Psychanalyse», 13, 1976; Ph. Lacoue‐Labarthe (1979), La melodia ossessiva. Psicoanalisi e musica, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1980; F. Fornari, Psicoanalisi della musica, Longanesi, Milano, 1984; M. Imberty, La musica e l’inconscio in Enciclopedia della musica, diretta da J. J. Nattiez, II, Il sapere musicale, vol. IX, Torino, Einaudi, 2002, pp. 335-360; M. Imberty, M. (1981), Le scritture del tempo. Semantica psicologica della musica, Milano, Ricordi-Unicopli, 1990.

[7]   Questioni già recentemente sollevate da François Régnault, Psychoanalysis and Music, in “The Symptom”, n. 11, Spring, 2010, pp. 2-7.

[8]   Theodor Reik, Listening with the third ear. The inner Experience of a Psychoanalyst, The Noonday Press, New York 1991. Reik raccoglie la formula da Nietzsche (Al di là del bene e del male, aforisma 246), il quale la riferisce al letterato e all’artista. Mette in connessione tale formula con l’indicazione che Freud da all’analista in ascolto delle parole del paziente. Dovrà attivare una attenzione fluttuante: «Si stia ad ascoltare e non ci si preoccupi di tenere a mente alcunché». È consigliabile lasciarsi sorprendere «con mente sgombra e senza preconcetti», oscillare da un atteggiamento psichico a un altro, senza «indulgere a speculazioni e a elucubrazioni» (Freud, Opere cit., vol. 6, 1912, pp. 533-535

[9]   Roland Barthes, La grana della voce, in L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001, pp. 257 ss.

[10]  Theodor Reik, Il rito religioso. Studi psicoanalitici, Bollati Boringhieri, Torino 1969.

[11]   Jacques Lacan, Seminario X, Einaudi, Torino 2007, p. 267.

[12]    Esodo, capp. XIX versi 16- 19 e XX verso 18. Altri testi biblici fanno menzione dello shofar ogni volta che si tratta di rinnovare l’alleanza con Dio a seguito di qualche nuovo contrasto, oppure durante le feste annuali dedicate alla rimemorazione dell’Alleanza: Samuele, II libro cap. VI; Cronache, I libro, cap. XIII.

[13]    Lacan, Seminario X cit., p. 270.

[14]   Ivi, p. 271.

[15]    Ivi, p. 300.

[16]    Ivi, p. 302.

[17]     Alain Didier-Weill, De quatre temps subjectivants dans la musique, in “Ornicar” n. 8 (1976-77), 41-52.

[18]     È Lacan a riprendere nel Seminario XI la distinzione aristotelica tra automaton e tyche (op. cit., p. 52).

[19]     Alain Didier-Weill, op. cit., p. 43.

[20]    Claude Dargeuille, L’objet musical dans le champ de la psychanalyse, in “Scilicet” n. 6/7 (1976), 329-336, p. 331.

[21]     Il contributo della psicoanalisi va riconosciuto in questa logica dell’implicazione, dove non esistono elementi originari o fondanti fuori dalla strutturazione, cioè fuori dal linguaggio; va riconosciuto in una logica dove il soggetto stesso è effetto di questa implicazione. Il “semplice” suono dello shofar implica un livello di strutturazione dell’ordine simbolico non riducibile alla nota o al timbro. Così come la “semplice” ripetizione di una nota implica una specifica strutturazione del tempo nel soggetto che ascolta.

[22]     L’Altro in Lacan non indica l’altro in quanto simile, né solamente l’Altro in quanto istanza che autentifica il mio dire nell’interazione. È essenzialmente il luogo dell’ordine simbolico, del linguaggio, delle leggi e delle istituzioni sociali.

[23]    La linguistica ci ha insegnato che la costituzione di fonemi non è nient’altro che un sistema di opposizioni che implica la possibilità di sostituzioni e di spostamenti, di metafore e di metonimie. Tale sistema si sostiene con qualsiasi materiale capace di organizzarsi in opposizioni distintive. Lacan ha sottolineato come alla base c’è sempre la catena significante in quanto principio di combinazione, metonimia e sostituzione (Seminario V, Einaudi, Torino 2004, p. 46).

[24]     Che richiama la Pathosformel che Aby Warburg propone per l’analisi dell’immagine.

[25]      Anche secondo Barthes bisogna attribuire alla scala tonale questa proprietà cinetica: «la salita (o la discesa) delle scale. Com’è noto, vi è una scala di toni, e percorrendo questa scala (secondo umori diversissimi) il corpo vive nell’affanno, nella fretta, nel desiderio, nel’angoscia, nella salita dell’orgasmo, ecc.». E anche se vien meno il sistema tonale questa funzione passa a un altro sistema, quello dei timbri, della timbralità (la rete dei colori del timbro) che assicura al corpo un ricco strumentario cinetico: scivolamenti, arresti, vuoti, dispersioni, tintinnii (L’ovvio e l’ottuso, cit. p. 296).

[26]    Robert Francés, La perception de la musique, Vrin, Paris 1958.

[27]     Cfr. Michele Cavallo, Punti di capitone, in “La Psicoanalisi” n. 45, Astrolabio, Roma 2009, pp. 45-63. È necessario stabilire tra i dettagli, tra gli elementi, tra i significanti, un criterio, se non proprio gerarchico, perlomeno di ordine e di precedenza, in grado di organizzare la percezione (cfr. Lacan, Seminario X cit., p. 270). In fondo quando in musica parliamo di identità sonora, timbrica, armonica, ritmica, melodica, alludiamo al principio organizzatore, al “punto di ascolto”.

[28]      Già Umberto Eco a proposito dei codici musicali attribuiva ai livelli connotativo, denotativo e stilistico proprietà contestuali e culturali non analizzabili a livello strutturale (La struttura assente, Bompiani, Milano 1991, pp. 398-99).

[29]      Jacques Lacan, Seminario XX, Einaudi, Torino 2011. Già negli Scritti troviamo la formula di “discorso concreto” di cui l’inconscio è la parte che sfugge alla continuità del volere e della coscienza (Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 252).

[30]      Due ordini differenti e indipendenti, poiché tra significante e significato c’è una barra (S/s), cioè non c’è isomorfismo. Nella prospettiva psicoanalitica questa precisazione è fondamentale. L’esistenza stessa dell’inconscio è postulata a partire da questa differenza, se tra S e s non ci fosse la barra, ma isomorfismo, l’inconscio non avrebbe motivo di esistere, al limite si tratterebbe solo di cercare i significati profondi, nascosti sotto il significante, dato che ad ogni significante corrisponderebbe un significato (seppur sepolto). Invece i due ordini si sviluppano e si concatenano in modi contingenti e singolari nella storia del soggetto. Si tratterà allora di reperire non tanto i significati sepolti ma la logica che produce la particolare concatenazione di ogni soggetto. Tuttavia anche l’idea di un’arbitrarietà dei nessi tra S/s nella lingua privata non è precisa, poiché seppur nella contingenza della storia soggettiva, i nessi non si creano nella pura libertà ermeneutica ma a partire dagli specifici “traumi” che l’incidenza del linguaggio ha prodotto su quel soggetto, è lo specifico modo di essere marchiati da ceri significanti a orientare la ricerca e a formare il reticolo della lalingua personale. E con essa un singolare “stile di godimento”.

[31]      Freud, Opere cit., vol. 6, pp. 47-52.

[32]      Freud, op. cit., p. 47.

[33]      Régnault, Psychoanalysis and Music, cit. p. 3.

[34]      Lacan, Seminario XI cit., p. 25.

[35]      Lacan, Seminario XVI cit., p. 14; vedi anche Seminario XVII cit., p. 11. Per Lacan se «il linguaggio è la condizione dell’inconscio» d’altra parte «l’inconscio è la condizione della linguistica» (Radiofonia. Televisione, Einaudi, Torino 1982, pp. 6-7).

[36]       Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino 1974, pp. 7-58. Concezione in contrasto con la visione di un inconscio istintuale, irrazionale, primitivo, pre-linguistico.

[37]       La pulsione non è semplice “spinta”, energia che si scarica, non è una funzione biologica che si accende e si spegne. Prima di tutto la spinta non riguarda la scarica energetica, la spinta è costante sia nella forma attiva che passiva, è sempre accesa, sempre alla ricerca del suo oggetto. È qualcosa che Lacan nel Seminario XI, metterà in evidenza parlando del movimento implicito in ogni funzione e del lato sempre attivo della pulsione, sempre alla ricerca di soddisfazione con qualsiasi mezzo. Cfr. anche Lacan, Seminario X cit., pp. 12 e 340; e il commento di Jacques-A. Miller, La teoria del partner, in “La Psicoanalisi” n. 34, 2003, p. 55. Per Miller la pulsione funziona come un’articolazione significante: «obbedisce a un ordine grammaticale» (“La Psicoanalisi” n. 51, p. 271).

[38]      La pulsione assomiglia a un montaggio in cui le pause, la tensione, i silenzi, l’attività e la passività, la parziale soddisfazione, la turbolenza e la quiete, il va e vieni, la pressione e il defluire, non sono che momenti di questo tragitto, di questo movimento in cui la pulsione è ingaggiata (Lacan, Seminario XI cit., p. 165 e 172).

[39]     Lacan, Seminario XX, p. 47.

[40]     Ivi, p. 33.

[41]      Seminario XX, p. 20. E già nel Seminario XI, p. 60.

[42]      Seminario XX, p. 30.

[43]      Henri Meschonnic, Critique du rythme. Anthropologie historique du langage, Verdier, Lagrasse 1982, pp. 216-7.

[44]       Ivi, p. 56.

[45]       Lucie Bourassa, Henri Meschonnic. Pour une poétique du rythme, Bertrand-Lacoste, Paris 1997, p. 32.

One thought on “L’inconscio musicale – I. Un discorso senza parole

  1. marco jacoviello ha detto:

    va bene lacan e freud, ma parlare di inconscio musicale senza citare abbondantemente Franco Fornari mi sembra davvero grave

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