Perché una psicoanalisi

Un’analisi è dura e fa male.

Ma quando si crolla schiacciati dal peso di parole rimosse, di comportamenti reiterati, di una vergogna atavica, quando la rappresentazione che ci si fa di sé diventa insopportabile, il rimedio è questo. Questa almeno è la mia esperienza, e per Jacques Lacan serbo un’infinita gratitudine. Non arrossire più di se stessi rappresenta la libertà realizzata. Una psicoanalisi ben condotta insegna questo a coloro che le chiedono aiuto (Françoise Giroud).

La psicoanalisi è stata un’invenzione straordinaria: ha messo al centro il soggetto, gli ha dato parola. Per la prima volta una persona poteva dar voce a una sofferenza avvertita nel corpo, nel pensiero, nell’esistenza, poteva percorrere il filo che formava la trama della sua vita, del suo destino. Poteva parlare del suo desiderio, delle paure, dell’angoscia, della sessualità, della morte, della sua follia, delle ripetizioni, della vergogna, di quello che non sapeva, poteva veder apparire in quei detti e non detti, nei lapsus, nelle mancanze, nei sogni… veder apparire il suo inconscio. Per la prima volta qualcuno ascoltava e accompagnava questo percorso, non con l’intento di correggere, insegnare, cancellare, estirpare, perfezionare, normalizzare.

Mettere il soggetto al centro non vuol dire semplicemente occuparsi del corpo del paziente, di un suo organo o di una sua facoltà mentale. Lo psicoanalista guarda, ascolta, interroga il soggetto che parla. Quel particolare soggetto che ha una relazione unica e fantasmatica con il suo corpo, con la sua sofferenza, che nessun esame oggettivo potrà rilevare. Solo la parola può far emergere quell’unicità. Il medico, o terapeuta che sia, guarda la malattia, il corpo, i sintomi, il comportamento, e in base al suo sapere decreta diagnosi e cura. Qui il soggetto non c’è.

La psicoanalisi prima di essere una terapeutica è un’etica. Parte dall’idea che l’uomo è tale solo nella propria parola, che il suo destino non è confinato alla condizione biologica. Sia nella salute che nella malattia la sua vita non è riducibile ai bisogni, al buon funzionamento, alla fisiologia, alla meccanica del corpo e/o della mente. Non è riducibile alla “nuda vita”. Per questo la psicoanalisi non è una medicina, né una psicologia, ma neppure una filosofia. È una strana cosa (un sapere e una prassi a sé stante), dotata di suoi principi, di sue metodologie, di un suo linguaggio e di una sua etica. Si distingue da tutte quelle scienze che mirano a ridurre il pensiero a una funzione o a un neurone, che riescono a confondere il desiderio con una secrezione chimica, con un correlato muscolare, posturale, comportamentale.

L’uomo può realizzare la sua libertà solo attraverso la parola, solo con essa può dipanare, tessere e indossare la sua storia e il suo stesso corpo; solo così può mettere in prospettiva il suo passato con il presente e il futuro. Solo così possono prendere posto le sue particolari nostalgie, malinconie, angosce, i suoi desideri, le passioni, le ripetizioni e i tentativi di rinnovamento, di trasformazione. È nei labirinti della parola che si rivelano le spinte inconsce che attraversano il soggetto e lo determinano a sua insaputa.

Certo, un’esperienza analitica è dura, richiede fatica, implicazione personale, soggettivazione di pensieri, sentimenti, atti che non si vorrebbero riconoscere come propri. Fa male riconoscere che si è responsabili del proprio destino, soprattutto quando sembra consegnarci al peggio, all’infelicità, alla ripetizione. Un percorso analitico può essere lungo e frustrante. Ma, per riprendere il titolo di un libro di qualche anno fa: La fatica di essere se stessi, tale fatica è ancora più dura quando non si tratta solo di mettere in gioco il coraggio per affermare il proprio essere, ciò che si è, ma quando si tratta di partire per una ricerca in luoghi sconosciuti in cui la fatica sarà diventare se stessi.